Il trionfo della tanatopolitica

Il trionfo della tanatopolitica

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Alcuni stralci dall’introduzione al 20° Rapporto sui diritti globali. Vi sono morti evitabili che determinate politiche scelgono di non evitare e, anzi, di determinare. Non c’è fatalità: ci sono politiche di morte, c’è necropotere

 

1. Vite “di scarto” e morti evitabili

Tanatopolitica è un neologismo il cui significato è facilmente intuibile, associando morte e politica: vuole dire che nell’organizzazione e gestione della vita pubblica, vi sono vite che vengono tutelate e altre considerate prive di valore, che possono essere sacrificate. Proprio com’era nella visione nazista dell’arianesimo. È il discrimine che divide garantiti e oppressi, considerati e disprezzati, salvati e sommersi a insindacabile giudizio e volere di chi esercita potere; in questo caso, propriamente di vita e di morte. Questa, a ben vedere, è sempre una prerogativa del potere, di chi governa e decide. Se si tagliano le risorse alla sanità e alle spese sociali, se si allunga l’età pensionabile o si impongono brevetti ventennali ai vaccini anti-Covid o anti-AIDS o a farmaci salva-vita, se si riducono o non si applicano le misure di sicurezza sul posto di lavoro, e così via, consegue, inevitabilmente e prevedibilmente, un aumento della mortalità. Chi può pagare un’assicurazione sanitaria o previdenziale, chi può permettersi cure o assistenza private tutelerà al meglio la propria esistenza e salute; chi non è in grado di farlo vedrà invece la propria qualità di vita abbassarsi e la sua fine avvicinarsi. Vi sono, cioè, morti evitabili che determinate politiche scelgono di non evitare e, anzi, di determinare. Non c’è fatalità, oggettività: ci sono scelte che causano morte, ci sono politiche di morte, c’è necropotere.


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Questa è la tanatopolitica, che è divenuta, in modo forse più manifesto, la modalità di governo globale nel nuovo millennio, caratterizzata dal massimo di indifferenza per le vite considerate “di scarto” anche laddove veste sembianze democratiche: ad esempio, senza ritornare al nazismo e al fascismo, è attraverso il rito formalmente democratico e il consenso elettorale che Jair Bolsonaro ha potuto governare il Brasile, favorendo il genocidio di popoli indigeni o la deforestazione selvaggia dell’Amazzonia, polmone vitale del pianeta, cui sono state inferte in questi ultimi anni ferite profonde come non mai. O si pensi alle politiche della Unione Europea (o degli Stati Uniti), caratterizzate dal «passaggio da una biopolitica delle migrazioni favorevole all’integrazione dei migranti nella società di arrivo (per meglio sfruttarli) alla tanatopolitica che è lasciar morire […]. Le migrazioni e le frontiere si spostano e i migranti diventano “vite di scarto o spazzatura” o rimangono intrappolati come “umanità in eccesso” destinata a essere smaltita come rifiuti ingombranti o tossici» (Palidda, 2021 a).

2. Schemi di guerra e imperialismi in conflitto

Anche la guerra di aggressione in Ucraina da parte della Federazione Russa, con il suo portato di morti e di crimini, è stata democraticamente ratificata dalla Duma con un voto favorevole il 15 febbraio 2022. Nove giorni dopo le truppe russe hanno invaso il territorio ucraino. A seguito di ciò, assieme al varo di pacchetti di sanzioni, i governi europei e l’Amministrazione statunitense decidevano l’invio, ripetuto e massiccio, di armamenti al governo ucraino.

Da allora si sono – ulteriormente – approfondite le divisioni tra Occidente e resto del mondo. Da quella data «tutto è sembrato precipitare come per inerzia, quasi che l’unico esito possibile fosse la vittoria di uno sull’altro» (Tornielli, 2022). Il dibattito pubblico è stato presto orientato secondo «schemi di guerra».

L’unico leader mondiale capace di denunciare le semplificazioni («è un errore pensare che sia un film di cowboy dove ci sono buoni e cattivi») e una visione limitativa («è un errore anche pensare che questa è una guerra tra Russia e Ucraina e basta. No: questa è una guerra mondiale»), di ricordare che un’analisi seria e costruttiva non può che partire dagli antefatti («io intendo ragionare sul perché questa guerra non sia stata evitata») e ad avere il coraggio di letture e posizioni controcorrente, ancorché storicamente fondate («io vedo imperialismi in conflitto […] quando si sentono minacciati e in decadenza, gli imperialismi reagiscono pensando che la soluzione sia scatenare una guerra per rifarsi, e anche per vendere e provare le armi») è stato papa Francesco (Spadaro, 2022).

La diplomazia vaticana, con il consueto stile e riserbo, è stata l’unica a spendersi e a tentare il possibile e l’impossibile per aprire spiragli e possibilità alla pace: auspicio e parola subito violentemente espulsi dalla scena pubblica e dai dibattiti televisivi, oltre che dalle dichiarazioni politiche. Sino al varo di un decreto del presidente ucraino Volodymyr Zelenski, a inizio ottobre 2022, che ha proibito per legge di negoziare la pace con la Russia. L’unico scenario consentito e perseguito è la vittoria militare. Vittoria o morte, vittoria e morte.

Contemporaneamente, e pure per conseguenza, giorno dopo giorno veniva sdoganata e introdotta, a livello mediatico e politico, l’opzione nucleare. Si è così infranto, senza alcuna esitazione e con scarsa resistenza, il tabù introdotto dopo la Seconda guerra mondiale a seguito delle immani e gratuite stragi, con centinaia di migliaia di vittime, inflitte dalle bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti sul Giappone già battuto, a conflitto sostanzialmente già terminato. Un test in corpore vili. Una quintessenza della tanatopolitica, non molto dissimile da quella alla base delle politiche di sterminio perseguite dal nazismo e dal fascismo con le leggi razziali, i lager e l’Olocausto: vi sono vite (etnie, popoli, classi sociali) senza valore, che possono essere spezzate e annullate, per interesse o per convinzione. Un test criminale e irrimediabile come quello che ora si prospetta in Europa con le bombe “tattiche” di nuova generazione.

Il teatro bellico che si è aperto nel vecchio continente, ai confini di una (ex) potenza mondiale e (attuale) forza nucleare, quale è la Russia, sia pure per sua responsabilità, è indubbiamente – anche – questo. Un’occasione di immani profitti per le industrie belliche, un pretesto per i governi di rinnovare gli arsenali, facendo smaltire quelli obsoleti all’esercito ucraino, un’opportunità per testare dal vivo nuovi armamenti e modelli operativi.

Produrre, comprare, vendere o comunque fornire armi è una delle più manifeste, e funeste, applicazioni e presupposti della tanatopolitica. Tra i pochi, è stato di nuovo il papa a ricordare quali ne siano gli effetti: «La gente comune in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra».

4. La guerra è (anche e sempre) terrorismo

Se è pacifico e ammesso che i governi occidentali condividano informazioni con quello ucraino, che a sua volta, ha trasmesso a Stati Uniti e Regno Unito i propri piani di guerra e di controffensiva, ogni collaborazione è stata negata riguardo quello che più che un atto di guerra appare come un atto terroristico – e come tale è stato qualificato dalle autorità russe –, vale a dire l’omicidio di Darya Dugina, figlia dell’ideologo nazionalista russo Alexander Dugin, avvenuto a Mosca il 20 agosto 2022 tramite un’autobomba. Secondo un’inchiesta del New York Times, funzionari dell’intelligence statunitense ritengono che l’attentato, in realtà probabilmente diretto contro il padre, sarebbe stato autorizzato da «settori del governo ucraino», mentre gli Stati Uniti non avrebbero fornito alcuna assistenza informativa o logistica. Attraverso le dichiarazioni di Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Zelensky, le autorità ucraine hanno smentito responsabilità nella morte di Dugina, ammettendo tuttavia la pratica degli omicidi mirati: «[…] qualsiasi omicidio durante la guerra in un paese o in un altro deve portare con sé una sorta di significato pratico», ha detto Podolyak al New York Times, mentre «Dugina non era un obiettivo tattico o strategico per l’Ucraina». «Abbiamo altri obiettivi sul territorio dell’Ucraina», ha continuato, «intendo collaborazionisti e rappresentanti del comando russo, che potrebbero avere valore per i membri dei nostri servizi speciali che lavorano in questo programma, ma certamente non Dugina». In effetti e in ogni caso, l’obiettivo non era Dugina bensì il padre e, del resto, scrive il quotidiano statunitense, «il governo ucraino ha tranquillamente riconosciuto l’uccisione di funzionari russi in Ucraina», come «il capo della regione di Kherson installato dal Cremlino, che è stato avvelenato ad agosto» (Barnes, Goldman, Entous, Schwirtz, 2022).

Gli omicidi extragiudiziali, eseguiti pure in altri paesi, sono divenuti via via più frequenti ancor prima della guerra in Ucraina, anche perché sempre meno stigmatizzati, oltre che regolarmente impuniti, nell’impotenza o nella distrazione delle istituzioni preposte alla giustizia internazionale. Il più noto avvenuto nel 2022, il 31 luglio, è quello del capo di Al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, colpito in Afghanistan dai missili sparati da un drone della CIA statunitense. In quel caso la rivendicazione è stata immediata e orgogliosamente esplicita da parte del presidente Joe Biden: «Sabato, sotto la mia direzione, gli Stati Uniti hanno concluso con successo un attacco aereo a Kabul, in Afghanistan, che ha ucciso l’emiro di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri». Lo stesso Biden, il 3 febbraio 2022, aveva rivendicato l’uccisione di un leader dell’Isis, Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi, colpito la sera precedente in un raid aereo nel nord-ovest della Siria, naturalmente sempre ««sotto la guida» del presidente USA, «in un’operazione antiterrorismo per proteggere il popolo americano e i nostri alleati e rendere il mondo un posto più sicuro» (Biden, 2022 a; 2022 b).

In precedenza, era toccato a Donald Trump esultare dalla Casa Bianca per l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, a capo dell’Isis, colpito sempre in Siria dalle forze speciali statunitensi nell’ottobre 2019, mentre l’ex presidente aveva scelto una linea di maggior riserbo allorché, il 3 gennaio 2020, a essere assassinato all’aeroporto di Bagdad in Iraq era stato il generale iraniano Qassem Soleimani, assieme ad altri cinque ufficiali iraniani e altrettanti iracheni. Una strage, operata con i soliti droni armati, più difficile da qualificare come “operazione antiterrorismo” e maggiormente suscettibile di determinare ulteriori tensioni e incidenti internazionali. In quel caso, tuttavia, la responsabilità della strage è stata facilmente attribuita e ufficializzata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, che l’ha qualificata come «omicidio arbitrario di cui, ai sensi del diritto internazionale umanitario, gli Stati Uniti sono responsabili» (Human Rights Council, 2020). Responsabili, ma mai perseguiti e neppure stigmatizzati nel consesso mondiale dalle istituzioni sovranazionali e dal fedele alleato europeo, mai scandalizzato dal fatto che un paese democratico e autonominatosi paladino ed “esportatore” dei diritti umani possa utilizzare l’omicidio – con, non di rado, connessa strage “collaterale” di civili – per «rendere il mondo un posto più sicuro».

Naturalmente, omicidi, atti di terrorismo e di guerra al di fuori della legalità e del diritto internazionale non sono prerogativa dei soli Stati Uniti, basti pensare ai ripetuti bombardamenti e raid dell’aviazione israeliana in Siria o l’invasione e occupazione di aree del Rojava da parte della Turchia.

Altrettanto naturalmente, Stati decisamente poco democratici, come appunto la Russia, sono forse meno attivi nelle esecuzioni extragiudiziali in altri paesi – se non di propri cittadini – ma egualmente indifferenti al rispetto dei diritti umani e a principi di legalità internazionale, subordinati alla logica di potenza e agli interessi di nazione. Come tragicamente si è visto anche in Ucraina.

8. Guerra del gas e diritti umani: immunità e impunità nel caso Khashoggi

Il 27 settembre 2022 il saudita re Salman ha emesso un decreto che, modificando la legge fondamentale (Basic Law of Governance), consente al principe ereditario Mohamed bin Salman (MBS) di agire come primo ministro. Non si tratta tanto di un ampliamento dei poteri del già potentissimo principe, bensì di uno stratagemma per sottrarlo al giudizio in corso negli Stati Uniti nella causa civile per l’omicidio di Jamal Khashoggi contro MBS e i suoi 20 co-cospiratori intentata dalla vedova Hatice Cengiz e dall’organizzazione della quale il giornalista – saudita, ma naturalizzato americano – era direttore esecutivo, Democracy for the Arab World Now (DAWN). L’immunità rivendicata da MBS, difatti, riguarda i capi di Stato in carica, i capi di governo e i ministri degli Esteri. Lo stratagemma reale è giunto, tempestivamente, pochi giorni prima della scadenza decisa dal giudice del tribunale distrettuale competente sul caso, John Bates, che aveva stabilito al 1° agosto 2022 la data – poi prorogata al 3 ottobre – entro la quale l’Amministrazione Biden avrebbe dovuto pronunciare una dichiarazione di interesse sull’eventuale concessione dell’immunità sovrana al principe saudita. Va ricordato che gli Stati Uniti avevano da tempo declassificato un report della propria intelligence che concludeva affermando la responsabilità di MBS: «Valutiamo che il principe ereditario dell’Arabia Saudita Muhammad bin Salman abbia approvato un operazione a Istanbul, in Turchia, per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi» (ODNI, 2021).

DAWN chiede però che l’Amministrazione statunitense, dopo il report – denso di omissis e pecette nere –, renda pubbliche le prove che hanno portato la CIA a concludere che il principe ereditario saudita abbia ordinato l’uccisione di Khashoggi, avvenuta il 2 ottobre 2018, diversamente, «trattenendo queste informazioni anche quattro anni dopo l’omicidio, Biden, come Trump prima di lui, sta proteggendo il principe ereditario omicida» (DAWN, 2022).

Sia Donald Trump sia Joe Biden non hanno sinora voluto riconoscere l’immunità a MBS, nonostante le precise richieste e pressioni saudite al riguardo, alla base anche del rifiuto a un incontro con il presidente USA nel marzo 2022 (poi però avvenuto in luglio) e a soddisfare le richieste statunitensi per un aumento della produzione petrolifera dopo l’inizio della guerra in Ucraina, in modo da abbassare i prezzi e indebolire la Russia. Anzi, a inizio ottobre 2022, l’Arabia Saudita, con i maggiori produttori riuniti in OPEC+, ha annunciato una riduzione della produzione di greggio pari a 2 milioni di barili al giorno, con conseguente aumento del prezzo, dell’inflazione e della speculazione energetica. Una decisione, considerata uno “schiaffo diplomatico” alla Casa Bianca e una mossa geopolitica capace di favorire la Russia, che ha provocato il massimo del disappunto di Biden, stante anche l’avvicinarsi delle elezioni di medio termine del novembre 2022.

Ad aiutare a capire meglio i rapporti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, e in generale i meccanismi dell’impunità e anche delle ipocrisie dei paesi democratici nei rapporti con quelli dove i diritti umani sono pesantemente e regolarmente vulnerati, è arrivata nell’ottobre 2022 un’inchiesta del quotidiano “Washington Post”. Dopo due anni di battaglia legale con il governo, il quotidiano ha potuto accedere a documentazione riservata che comprova che ben 15 generali e ammiragli statunitensi in pensione hanno lavorato dal 2016 come consulenti retribuiti per il ministero della Difesa saudita, guidato proprio da Mohammed bin Salman. Tra di loro, anche l’ex direttore della National Security Agency (NSA) e l’ex comandante delle truppe USA e NATO in Afghanistan. Nel complesso, dal 2015 sono ben 500 gli ex militari statunitensi, molti di altissimo grado, assunti da Stati stranieri, in gran parte dalle ricche monarchie del Golfo. I compensi sono ragguardevoli: «raggiungono le sei e, a volte, sette cifre, molto di più di quanto guadagna la maggior parte dei membri del servizio americano durante il servizio attivo». Ad esempio, l’Arabia Saudita si è assicurata i servigi per le operazioni speciali di un ex Navy SEAL per 258.000 dollari all’anno, l’Azerbaigian ha corrisposto a un generale dell’aeronautica statunitense in pensione una retribuzione di 5.000 dollari al giorno. Compensi stratosferici, talvolta negoziati con i governi stranieri mentre gli ufficiali erano ancora in servizio attivo (Whitlock, Jones, 2022).

Gas e petrolio, così come diritti umani, immunità e impunità, sono considerati e utilizzati da governi – che siano democratici, come gli Stati Uniti, o teocratici, come l’Arabia Saudita – quale moneta di scambio. Una logica, consustanziale allo Stato stesso e alla sua “ragione”, che non desta scandalo né sufficiente opposizione, che non sia unicamente quella, di per sé debole e ostacolata, delle organizzazioni umanitarie e delle persone direttamente coinvolte, o, più raramente, di qualche istituzione e forza politica. In questo senso, la lotta contro l’impunità è anche impegno per richiamare governi e istituti democratici, nazionali e internazionali, all’accountability, per una diversa centralità e pratica dei diritti umani, troppo spesso soggetti a un “doppio standard”, come anche alcuni risvolti della guerra in Ucraina sembrano mostrare.

17. Dalla parte della povera gente

Vincere la pace e affermare la giustizia vuol dire cambiare decisamente pagina e paradigma, dare finalmente voce e potere alla «maggioranza silenziosa contraria al neoliberismo», come la definisce Paolo Santori, coordinatore dell’Economy of Francesco, un gruppo di mille economisti che da tre anni lavora a trasformare in pratica e proposte l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Partendo «dai principi e dall’etica: ecologismo e i beni comuni sono la base per farlo», per affermare una nuova idea di economia in cui «è centrale la forma cooperativa dove viene sorpassato il modello datore di lavoro-salariati ma tutti compartecipano alla produzione dividendo in parti uguali i profitti» (Franchi, 2022).

Gli economisti di Economy of Francesco preferiscono parlare di neoliberismo non di capitalismo, di una differente concezione della crescita non di decrescita, ma la sfida e la vitale necessità che indicano sono quelle di cambiare gli stili di vita, di indirizzarsi a un consumo etico e sostenibile, di promuovere una riconversione ecologica ed equa dell’economia. Altri movimenti sociali e attivisti parlano di società della post-crescita, elaborando progettualità e proposte per uscire dalle crisi con una alternativa di sistema per costruire la società della cura di sé, degli altri, del pianeta.

Si tratta di idee o, se si preferisce, di utopie concrete, che già avevano saputo contagiare e convincere milioni di giovani e meno giovani a cavallo del cambio di millennio, trovando espressione organizzata nel movimento altermondialista e nei Forum sociali nati a quel tempo in ogni latitudine. Quel movimento è stato represso e sconfitto da un ordine mondiale fondato sulla “guerra infinita” e sulla tanatopolitica, ma le sue intuizioni, analisi e proposte sono più che mai attuali e preziose.

Pur se ancora confinate in nicchie di pensiero e di pratica, mentre arriva il primo inverno della guerra in Europa e i governi ragionano su privazioni e limiti da imporre al consumo di energia, il venire al pettine dei tanti nodi connessi a modelli di sviluppo dissennati e suicidi e a uno warfare onnivoro e distruttivo rende quelle idee un giacimento fondamentale e una speranza per tutti.

Maria Arena, presidente della Sottocommissione per i diritti umani del Parlamento Europeo, scrive qui che è divenuto ormai evidente come «l’universalità dei diritti umani è in contraddizione con il modello capitalista».

Lo stesso si può dire per i diritti sociali e per quelli ambientali. Si tratta di una constatazione e di una verità, non apodittica e non ideologica, che, nel nostro piccolo, abbiamo documentato e analizzato in questi vent’anni di lavoro e pubblicazioni e che pongono nuovi e ancor più stringenti interrogativi in questi tempi di guerra.

Ci sembra che le crisi in corso in questi anni, che si susseguono, si intersecano e si sommano, confermino ogni pessimistica analisi e previsione, compresa la nostra: a partire dalla perdurante crisi economica a quella sociale, passando per quella pandemica e quella bellica sino alla, più generale e risalente, crisi ambientale e climatica. E ci pare, d’altra parte, che ciò confermi il nostro peculiare e originale approccio dei diritti globali come necessaria “piattaforma” per costruire una alternativa: senza intersezione delle identità, senza collegamento e interazione tra sfere e generazioni diverse di diritti – troppo spesso, nel secolo scorso ma pure tuttora, messe in competizione e conflitto tra loro – non c’è possibilità di delineare una progettualità di cambiamento che non sia solo accademica, astratta o velleitaria.

Naturalmente, in tutto ciò, la nostra attività e questo Rapporto sono nient’altro che un minuscolo granello, un tentativo di camminare nella direzione giusta, magari riuscendo ogni tanto a contribuire a decifrare meglio qualche snodo, a individuare e descrivere qualche tendenza.

Inaspettatamente, e faticosamente, con questo volume siamo ora giunti a compiere vent’anni. […] Il primo volume del Rapporto sui diritti globali è uscito nell’anno in cui quel movimento di allora, il 15 febbraio 2003, portò in piazza decine di milioni di persone in tutto il mondo. Poco dopo, l’invasione dell’Iraq da parte della “coalizione dei volenterosi” guidata dagli Stati Uniti d’America cambiò gli scenari e il futuro di tutti. Come riepiloghiamo più avanti, si trattò di un intervento militare nel segno dell’illegalità e di un salto di qualità della necropolitica, con la teorizzazione e la messa in pratica della “guerra infinita” che tanti morti e distruzioni ha prodotto e continua a produrre.

Anche per quella nostra ascendenza culturale, nel tempo della guerra in Ucraina, mentre si affermavano le spinte alla semplificazione, a rinunciare a ogni capacità di memoria e di analisi storica, a dividere tra “buoni” e “cattivi”, a schierarsi senza interrogativi e senza esitazione con gli uni o con gli altri, ci è sembrato invece naturale collocarci in effetti da una parte, trovare una nostra coerente “Linea di condotta”. Quella stessa dei pacifisti e obiettori russi, quella dei civili ucraini colpiti dalle bombe e costretti ad abbandonare le proprie case, quella di tutti i popoli oppressi e di tutte le vittime di tutte le guerre.

Quella che ci suggeriva il poeta Bertold Brecht nel secolo scorso, mentre si stava affermando il nazismo che avrebbe condotto il mondo al macello della Seconda guerra mondiale: la parte della povera gente.

La guerra che verrà non è la prima.
Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.


Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore dell’Associazione Società INformazione

da Comune-info

 



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