COP27. Contadini ai margini, l’agrobusiness detta il menu

by Marinella Correggia * | 13 Novembre 2022 9:07

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L’imponente presenza dell’industria alimentare tenta l’assalto ai negoziati. Da Via Campesina a Sloow Food: la buona agricoltura

 

Fitta la giornata di ieri alla Cop27, focalizzata sull’agricoltura. Sono stati lanciati diversi programmi in un contesto, però, segnato dall’imponente presenza dell’agrobusiness globale che ha grande presa su governi sul negoziato, mentre le voci contadine, delle comunità rurali e della società civile stentano a farsi udire. Da La Via Campesina a Slow Food al gruppo di ricerca Ipes-Food, in tanti sollevano dubbi sui tanti rischi legati ai mercati delle emissioni, alla gestione forestale, alle cosiddette nature-based solution, alla brevettazione delle risorse e alla «climate-smart agriculture», il cui sostegno è al centro dell’Agriculture Innovation Mission or Climate -Aim4C, lanciata non a caso da Stati uniti ed Emirati arabi uniti.

Invece la Fao ha presentato ieri l’iniziativa Fast (Alimentazione e agricoltura per una trasformazione sostenibile) che punta ad aumentare e migliorare la finanza climatica per l’agricoltura e i sistemi alimentari. Al centro il nesso fra malnutrizione, salute e riscaldamento globale. Occorrono tecnologie per l’adattamento trasferibili facilmente ai paesi del Sud. La Fao intende poi lanciare entro il 2022 un piano per allineare il sistema alimentare mondiale all’obiettivo generale di limitare entro 1,5° il riscaldamento della temperatura globale. Rapporti periodici potrebbero fare da riferimento, come fanno in campo energetico quelli dell’Agenzia internazionale per l’energia.

Alla Cop27 i governi adotteranno decisioni sul piano agroalimentare anche sulla base del Lavoro congiunto sull’agricoltura «Koronivia» adottato alla Cop23 di Bonn (2017) che sembra promuovere l’inclusione e la condivisione delle decisioni fra gli attori sul capo ma i cui contenuti sono in parte controversi. Si tratta poi di dare seguito alla Malabo Declaration del 2014, rinnovando l’impegno della cosiddetta comunità internazionale per un Programma di sviluppo agricolo comprensivo in Africa (Caadp) da sviluppare entro il 2025: stop alla fame, triplicare il commercio agricolo e di servizi (ma questa in sé non è una soluzione) , aumentare la famosa resilienza – o piuttosto sopravvivenza – dei sistemi produttivi. E in materia di tecniche, il Programma Onu per l’ambiente (Unep) e la Fao hanno reso noto il rapporto Sustainable Food Cold Chain Report per sviluppare la catena del freddo in modo da salvare ogni anno cibo per 144 milioni di tonnellate nei paesi del Sud, per nutrire due miliardi di nuove bocche entro il 2050 ed evitare le emissioni di metano legate appunto alle derrate andate a male. Il fatto è però che l’abnorme catena del freddo esistente in una parte del mondo già produce il 4% delle emissioni di gas serra totali. Invece un nutrito gruppo di Ong e attivisti ha reiterato una richiesta di fondo ai leader mondiali: avviare i negoziati intorno a un «trattato globale per la transizione a sistemi alimentari a base vegetale, indispensabile per evitare la catastrofe climatica, il degrado dei suoli, la deforestazione.

Dal canto suo, Greenpeace denuncia la contraddizione: ufficialmente si mettono l’Africa e l’agricoltura (settore più che centrale nel continente, e molto colpito dagli eventi estremi) al centro dell’attenzione, ma malgrado sia centrale nell’agenda della Cop27 la discussione sul meccanismo per il risarcimento di danni e perdite (loss & damage) ai paesi in via di sviluppo, diverse nazioni storicamente responsabili del disastro climatico prendono tempo cercando di rimandare di anni e di evitare la garanzia di un fondo specifico, con nuovi e ben maggiori fondi; più che necessari per la giustizia sociale e climatica visto che l’adattamento da solo non basta più.

* Fonte/autore: Marinella Correggia, il manifesto[1]

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