by Andrea Capocci * | 7 Ottobre 2022 12:26
I giovani dottori scartano la medicina di emergenza e la rianimazione e preferiscono la sanità privata: lo mostrano i dati sulle scuole di specializzazione pubblicati dal sindacato Anaao. Gli “urgentisti” e i medici di terapia intensiva scarseggeranno anche nei prossimi anni
L’Anaao, il principale sindacato dei medici ospedalieri, ha pubblicato[1] i numeri sull’assegnazione dei contratti per le scuole di specializzazione. Dai dati emerge che i giovani medici preferiscono perfezionarsi nelle discipline più spendibili sul mercato della sanità privata. Di conseguenza, i pronto soccorso e le terapie intensive rimarranno sguarniti di personale anche nei prossimi anni.
La scuola di specializzazione è il percorso post-laurea della durata di cinque o sei anni con cui si acquisisce il titolo di medico specialista e si può lavorare nei vari reparti ospedalieri. L’accesso alle scuole avviene attraverso un esame, superato il quale lo «specializzando» sceglie la disciplina in cui svolgere il tirocinio e esercitare la professione. Le scelte dei giovani laureati permettono dunque di anticipare la disponibilità di medici per i prossimi anni. Ogni anno vengono messi a bando diverse migliaia di contratti di formazione, il cui compenso mensile si aggira intorno ai 1700 euro. Nell’ultima tornata, grazie all’aumento dei finanziamenti deciso dal governo negli anni della pandemia, i posti banditi nel primo scaglione del concorso sono stati circa 14 mila (prima della pandemia erano meno di diecimila in tutto) per le varie discipline mediche. L’88% dei posti a disposizione ha trovato candidati interessati. Ma la proporzione tra domanda e offerta è molto diseguale da settore a settore.
In fondo alla classifica di gradimento si trovano settori come virologia, farmacologia e tossicologia, cure primarie e soprattutto la medicina di emergenza e urgenza, cioè la specializzazione con cui inizia il percorso il futuro medico di pronto soccorso. Per la virologia, cui la pandemia ha regalato una pubblicità senza precedenti, addirittura tre contratti su quattro rimarranno senza candidati. Dei posti per aspiranti «emergentisti», invece, ne andranno sprecati 441 su 886, la metà. Leggermente sotto la media anche le preferenze rivolte a un altro settore strategico, quello della rianimazione in cui sono avanzati 175 posti su 1248. Non è una novità: ogni anno le aree dell’emergenza e della rianimazione un’alta percentuale[2] dei posti disponibili rimane non assegnata.
Tra le discipline più gettonate dai giovani medici ci sono iinvece chirurgia plastica e dermatologia, nelle quali nemmeno una borsa di studio a livello nazionale è andata persa: tutti i 131 posti per perferzionarsi in chirurgia plastica e i 152 dell’area dermatologica sono stati assegnati. Non stupisce che siano due settori in cui la sanità privata ha un peso preponderante e può offrire le maggiori prospettive economiche ai medici.
Va aggiunto che negli anni successivi possono avvenire ulteriori spostamenti verso i settori più ambiti con un ulteriore drenaggio di risorse umane dalla sanità pubblica. In queste condizioni, l’obiettivo di raddoppiare i posti letto di terapia intensiva fissato nella riforma della rete ospedaliera post-pandemia appare un miraggio, visto che sarà difficile persino garantire l’attuale numero di medici.
La crisi dei reparti di emergenza[3] degli ospedali pubblici, dunque, è destinata a perdurare anche nei prossimi anni. Questa situazione drammatica non ha una sola causa. I medici disponibili scarseggiano per gli errori di programmazione degli anni precedenti la pandemia, in cui il numero chiuso nelle facoltà, la ridotta disponibilità di borse di specializzazione, la difficoltà burocratica di assumere medici stranieri[4] e i tetti di spesa imposti alle regioni hanno impedito di sostituire i medici andati in pensione. Molti ospedali italiani garantiscono il servizio di Pronto soccorso ricorrendo a cooperative che «affittano»[5] medici alle aziende sanitarie a costi molto alti, ma che possono essere inseriti nella voce di bilancio dell’acquisizione di beni e servizi e non in quelle relative al personale, ben più ristrette.
Specializzazioni come rianimazione e emergenza sono ulteriormente penalizzate in quanto consentono minori sbocchi nelle strutture private – i reparti privati di pronto soccorso e di terapia intensiva sono una rarità – e nella libera professione. Per questo, da tempo diverse associazioni professionali chiedono specifici incentivi che invoglino i medici a intraprendere le carriere in questi settori, una proposta che il governo ha fatto sua con scarsa convinzione[6], investendo appena 90 milioni nella finanziaria 2021 per il personale di pronto soccorso, infermieri inclusi.
Infine, negli anni le condizioni di lavoro nei reparti di rianimazione e emergenza sono diventate sempre più gravose e non solo per la pandemia, rendendo ancora meno attrattive queste carriere.
La fragilità della sanità territoriale e dei servizi sociali fa sì che i pronto soccorso siano sommersi quotidianamente da casi di scarsa gravità, legati a malattie croniche o alle fragilità sociali (come dipendenze e disagio abitativo) che andrebbero affrontati in strutture diverse come le future «case di comunità»[7]. Il conseguente sovraffollamento dei reparti di emergenza genera sempre più frequenti episodi di aggressioni fisiche ai medici.
La mancanza di medici di emergenza e rianimazione, dunque, non può essere risolta con piccoli aggiustamenti «una tantum» come l’aumento delle borse di specializzazione deciso dal ministro della salute Speranza che dovrà essere confermato negli anni a venire. Ben prima della pandemia, l’organizzazione della sanità territoriale e ospedaliera aveva bisogno di un’iniezione di risorse nei settori strategici in cui il servizio pubblico rimane insostituibile. Speranza per ora si è limitato ad tamponare l’emergenza, e non basta. Toccherà al governo Meloni raccogliere la patata bollente.
* Fonte/autore: Andrea Capocci, il manifesto[8]
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