Ri-escalation. Ucraina, la guerra sta cambiando natura

by Guido Moltedo * | 11 Ottobre 2022 9:24

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Biden avrà pure investito nella vittoria dell’Ucraina, ma, finora almeno, ha fatto anche il possibile per impedire che le forze Nato siano trascinate nella guerra o provochino l’uso di armi nucleari da parte russa

 

Chi comanda al Cremlino? Vladimir Vladimirovic Putin. Certo, ancora lui, ma la domanda che si pongono a Washington, nel 229mo giorno di guerra in Ucraina, è reale e seria.

L’evidente cambiamento nella strategia militare russa, con una pioggia di missili e «droni suicidi» su aree civili dell’Ucraina, non è visto solo come una ritorsione, un’escalation se non prevista, prevedibile, in risposta all’esplosione del giorno prima sul ponte di collegamento con la Crimea, è vista come un segnale «politico» molto forte diretto verso diversi obiettivi.

A MOSCA LA CRISI clamorosa della gestione dell’«operazione speciale», culminata nella mancata vigilanza del ponte di Kerch e nella mancata prevenzione di attentati come quello di domenica, ha prodotto importanti siluramenti e sostituzioni ai vertici militari nell’ambito di una manovra di spostamento del baricentro del potere decisionale politico sul lato dei «falchi». Al punto che ci si chiede se Putin dia loro ascolto o ne sia addirittura ostaggio e fino a che punto. Qual è attualmente la forza autonoma del presidente russo, è ancora come spesso è stato definito, per il suo potere ostentato, lo zar?

Le voci di personaggi come quelle del numero due di fatto Dmitri Medvedev, del ceceno Rmazan Kadyrov, del numero uno della Crimea Zergei Aksynov, della star del giornalismo Alexander Kotz risuonano con la sicumera di chi ha il controllo delle leve che contano. Si notano le loro dichiarazioni, sono più del solito coro che accompagna le decisioni del capo supremo. «Non è un atto isolato di rappresaglia ma un nuovo modo di combattere la guerra», dice Kotz, sintetizzando quanto è avvenuto domenica e dandone una lettura politica.

Putin ha dunque ancora il pieno e unico controllo del pulsante nucleare? «Va detto con chiarezza – ha dichiarato il capo del Pentagono, Lloyd Austin – che è lui che prende la decisione [di lanciare un attacco nucleare], la sua è la decisione di un uomo solo. Non ha bilanciamenti, e così come ha preso la decisione irresponsabile di invadere l’Ucraina, può prendere un’altra decisione».

MA È ANCORA COSÌ, è ancora interamente nelle sue mani la valigetta nucleare? Domanda che, da parte americana, non allude solo all’effettiva, attuale gerarchia del potere nel Cremlino, dopo otto mesi di una guerra che è un susseguirsi di fallimenti costellato di errori e di orrori, ma si riferisce all’interlocutore reale con cui costruire una possibile via d’uscita e scongiurare un’escalation fuori controllo del conflitto, che potrebbe culminare nel ricorso all’arma nucleare.

Nella sua ultima sortita, il 6 ottobre scorso, Joe Biden aveva detto parole che in controluce sono state lette come la possibile riproposizione di uno scenario simile a quello che mise fine alla crisi innescata dall’installazione di missili sovietici a Cuba, quando si arrivò sul ciglio del baratro atomico e ci si fermò un millimetro prima grazie a un patto segreto tra Kennedy e Krusciov, che da parte americana, poco dopo, avrebbe comportato il ritiro dei missili di stanza in Turchia, considerati dall’Urss una minaccia diretta. L’americanista Arnaldo Testi, ricostruendo quella crisi, osserva che «il patto era così segreto che la leadership dell’Urss visse la soluzione pubblica delle crisi come un colpo al suo prestigio». È già in corso qualcosa che somigli a quella trattativa, tra Mosca e Washington? E se sì, può continuare alla luce degli ultimi eventi?

COMMENTANDO l’esplosione di domenica scorsa sul ponte di Crimea, il capo degli stati maggiori riuniti, Mike Mullen, ha definito Putin «un animale messo all’angolo, sempre più pericoloso, da prendere molto sul serio, assumendo tutte le misure che sono richieste», ma concludendo che tutto questo «ci parla anche del bisogno di andare al tavolo» (del negoziato).

Un auspicio che il giorno dopo, il lunedì degli attacchi dal cielo ai centri urbani ucraini, si presenta in uno scenario molto diverso, che sembra chiudere spiragli a soluzioni negoziali come quelli che, pur molto ipotetici, sembravano profilarsi prima dell’escalation e prima dunque dell’affermazione al Cremlino del «partito» della guerra a oltranza, di quella che, per dirla con Medvedev, dovrà concludersi con il «completo smantellamento» della leadership ucraina.

LA SOLLECITAZIONE dell’ambasciata americana a Kiev ai connazionali perché lascino l’Ucraina «utilizzando trasporti di terra disponibili e sicuri» suona come la conferma di uno stop a qualsiasi ipotesi di interlocuzione possibile, per quanto super segreta, tra Washington e Mosca. Non significa che sul piano militare ci siano cambiamenti di rilievo per quanto riguarda soprattutto la fornitura di armi a lungo raggio in grado colpire obiettivi nel cuore della Russia. Biden avrà pure investito nella vittoria dell’Ucraina, ma, finora almeno, ha fatto anche il possibile per impedire che le forze Nato siano trascinate nella guerra o provochino l’uso di armi nucleari da parte russa. E l’ha ribadito anche ieri limitandosi a condannare la rappresaglia senza annunciare nuove misure contro Mosca Ma anche questo potrebbe rivelarsi un confine esile e labile, facilmente valicabile dagli ucraini, che – non si sa se secondo un copione concordato con Washington oppure spiazzando gli alleati – hanno compiuto azioni non «coperte» dal Pentagono e della Cia, come lo stesso attacco al ponte di Crimea.

Va detto che se la nuova «maggioranza» che condiziona Putin può infischiarsi delle reazioni indignate di America, Ue e Nato, non altrettanto può fare nei confronti di potenze come Cina e India, che hanno crescente importanza strategica con l’acuirsi del conflitto e l’isolamento russo. Ed è infatti molto rilevante la «profonda preoccupazione» di New Delhi per l’escalation del conflitto, con la raccomandazione, in sintonia con Pechino, alla «de-escalation» e al dialogo.

* Fonte/autore: Guido Moltedo, il manifesto[1]

 

 

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