Per firmare i decreti con cui Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson entreranno dopo il voto della Duma a far parte della Russia, Vladimir Putin ha convocato la sua élite nella sala di San Giorgio al Palazzo del Cremlino, la stessa in cui nel 2014 aveva deciso l’annessione di altre due province ucraine, la Crimea e Sebastopoli. Allora pareva di percepire una specie di euforia fra ministri, deputati, manager di stato, ufficiali dell’esercito ed esponenti religiosi. Ma ieri gli sguardi erano cupi. Molti avranno inteso che l’operazione speciale lanciata alla fine di febbraio per denazificare l’Ucraina, come il capo aveva detto nel suo messaggio alla nazione, nei fatti è terminata qui.
Che la conquista di queste quattro regioni fra il Donbass e le coste del Mar Nero rappresenta l’esito finale di uno sforzo andato avanti sette mesi. Che d’ora in avanti sarà necessario combattere per un obiettivo ben diverso, per difendere i nuovi confini che Putin e i suoi più stretti consiglieri hanno stabilito. Questo comporta una serie notevole di rischi. Anche perché lungo il fronte la presenza della Nato è sempre più evidente, e il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, ha confermato proprio ieri da Bruxelles il sostegno all’Ucraina nella «riconquista dei suoi territori».
«VOGLIO CHE MI SENTANO a Kiev e in tutto l’occidente», ha detto Putin nel discorso durato quaranta minuti e trasmesso alla tv pubblica: «I cittadini di Lugansk, di Donetsk, di Zaporizhzhia e Kherson hanno deciso. Saranno con noi per sempre». Il riferimento è al referendum farsa che il suo governo ha organizzato la scorsa settimana per legittimare l’annessione venuta dopo una terribile campagna militare il cui risultato è, peraltro, ancora incerto. Questo nuovo confine lungo un migliaio di chilometri Putin ha promesso di difenderlo «con ogni mezzo disponibile». Già nei giorni scorsi Putin aveva parlato in modo esplicito della possibilità di usare ogni risorsa del suo arsenale in caso di minacce alla sicurezza della Russia. Ieri si è rivolto agli Stati uniti, gli unici ad avere usato per due volte l’arma atomica, creando, così ha detto, «un precedente».
PROPRIO GLI STATI UNITI e gli altri paesi di quello che Putin chiama «occidente collettivo» sono stati a lungo al centro dell’intervento. Sinora Putin aveva criticato, usando toni alle volte aspri, la dottrina liberale e neoliberale. Ieri si è spinto ben oltre. «La repressione della libertà sta assumendo le sembianze di una religione al contrario, di un vero satanismo», le parole usate davanti alla sua cerchia, prima di paragonare la teoria del gender a una «negazione dell’umanità».
Di fronte all’occidente «coloniale», che «vuole depredare il mondo con i diktat del dollaro e con la rendita della sua egemonia», che «ha sempre cercato di indebolirci, ma è riuscito a mettere le mani sulle nostre ricchezze soltanto alla fine del Ventesimo Secolo», Putin cerca da tempo di costruire un nuovo modello politico, i cui contorni sono, però, vaghi e per alcuni versi logori. «L’Unione sovietica non c’è più e non tornerà, ma la Russia esisterà per sempre. Loro non ne hanno bisogno. Noi, sì».
Una «grande Russia storica», come l’ha definita ieri, riprendendo le discutibili tesi elaborate da pensatori di second’ordine come Iurii Krupnov, che negli anni Novanta invocava il ritorno alla madrepatria delle terre perdute con la fine dell’Impero, una nazione in grado di accogliere e di proteggere «quelli che vogliono tornare alla patria», la cui dottrina sarebbe nei testi del poeta Ivan Iliyn, citato nel bel mezzo del discorso: «Amo la Russia, il suo spirito è il mio spirito, la sua sorte è la mia sorte, le sue sofferenze sono il mio dolore, la sua fioritura è la mia gioia: alle nostre spalle c’è la Russia». Non è chiaro come questo possa aiutare Putin nella crisi militare che l’esercito affronta in Ucraina e in quella politica che cresce alle periferie del suo stesso potere.
AL «REGIME di Kiev» Putin ha chiesto di «cessare immediatamente tutte le azioni militari» e di «fare ritorno al tavolo dei negoziati». Le condizioni per trattare sono sempre più pesanti. Ora, per il capo del Cremlino, prevedono che l’occidente consideri russe le quattro regioni che la Duma integrerà fra qualche giorno, oltre alla Crimea. Né il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, né il capo della Casa Bianca, Joe Biden, né, tantomeno, i governi europei sono disposti ad accettare. A piedi del palazzo presidenziale, sulla Piazza Rossa, si sono radunate alcune migliaia di persone. Putin è salito sul palco in serata. Di fronte aveva decine di bandiere al vento. Ha detto che la Russia vincerà. Ma la guerra è ancora tutta da combattere, e là fuori non c’è più aria di festa.
* Fonte/autore: Luigi De Biase, il manifesto[1]