Marco Cavallo e la rivoluzione basagliana
Da 50 anni simbolo della rivoluzione basagliana che da Trieste si è propagata nel mondo, è diventato «un ingombro» per il sindaco leghista di Muggia, paese ospitante
TRIESTE. Marco era il nome del mulo che trainava il carretto della biancheria da lavare. Arrivava con le lenzuola pulite e si sentiva il profumo, i matti aggrappati alle grate per salutarlo. Quelli poco matti, giusto un poco, ché gli altri stavano legati al letto o dentro le gabbie o magari con gli elettrodi alle tempie per far passare un po’ di ampere ché le convulsioni fanno bene, dicevano. Entrava e usciva dal manicomio, lui, a mostrare quella libertà che i reclusi, i matti, sognavano o immaginavano o forse solo vedevano passare intuendo che c’era un altro, un altrove, chissà dove e chissà come fatto. Diventò vecchio Marco il mulo e si diffuse la voce che doveva essere abbattuto, ché tanto non serviva più. Dalle palazzine in fila lungo il grande viale, i padiglioni che dividevano i malati secondo immaginifiche patologie, le isteriche, gli schizoidi, i pericolosi, le sporche, si levarono voci, si sentirono rumori: Marco doveva restare, Marco era amico, era sogno, lui guardava tutti con occhi buoni. E Marco restò, nutrito e accudito, fino alla fine dei suoi giorni. Non si macellano i sogni.
POI VENNE BASAGLIA e in molti poterono uscire dal proprio reparto, andare al bar con le sedie sul prato o in uno dei laboratori a immaginare il teatro o a fare disegni e usare i colori, sedersi in mezzo tutti nell’assemblea quotidiana per discutere dell’oggi e del domani. Si raccontarono le storie, le proprie, le altrui e quella bella del cavallo Marco, ché il mulo era diventato cavallo, pronto a galoppare, senza carretti da tirare a capo chino. Si decise anche che occorreva lavorare assieme, condividere pensieri ma anche cose e che, allora, bisognava costruire davvero un qualcosa. Franco Basaglia aveva un cugino, Vittorio, che insegnava all’Accademia di Belle Arti di Urbino e Vittorio venne a Trieste e partecipò alle assemblee, ascoltò le storie e fece la sua proposta: ricostruire il cavallo Marco, ché era un simbolo di libertà, ricostruirlo con il legno e la cartapesta, colorarlo di blu come il cielo che non ha confini. Assieme, tutti, ovviamente.
IL LAVORO DURÒ quasi un anno e Vittorio ci fu sempre, a fugare le paure, a indicare soluzioni, a ridere con gli altri di quei quattro metri di animale che prendevano forma. Era il 1973, dentro il comprensorio dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste si lavorava, si aprivano porte, si lottava, credendo profondamente che prima di ogni altra cosa viene l’uomo, e gli uomini sono diversi ma con uguali diritti, e se qualcuno ne perde alcuni per strada perdiamo tutti qualcosa. Ci volle ancora tempo ma ecco la «legge Basaglia» : manicomi aperti, salute da garantire a tutti nelle strade, nei rioni, vicino alla gente per la gente. Centri dove trovare conforto e cura, appartamenti da condividere, reti sociali da costruire e far respirare.
MARCO CAVALLO era lì, bello alto e azzurro, quasi sfrontato con quel collo dritto, il muso ad annusare l’aria, le lunghe zampe pronte a scalciare. Era il simbolo della libertà e la libertà doveva uscire, portare fuori i sogni, i desideri, le speranze che riempivano la sua pancia. Che giornata fu quella! Era così grande, Marco Cavallo, che si dovette abbattere la recinzione del Padiglione P per farlo uscire, perché la realtà sa essere più forte della metafora. E Marco Cavallo girò per la città e centinaia di ricoverati lo seguirono. «La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di poter stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra persone», scrisse Franco Basaglia. «La città intuì per un giorno intero cosa significasse un manicomio e chi erano le persone che lo abitavano. Marco Cavallo fu, per dirlo con le parole di Marx, “il sogno di una cosa migliore”».
SONO PASSATI gli anni e Marco Cavallo ha girato spesso, raggiungendo tanti angoli d’Italia per ricordare a tutti che è necessario essere continuamente critici e lui per primo nitrisce e scalpita ancora oggi davanti ai crimini di pace, ai pregiudizi, alle ingiustizie, alla banalità dei luoghi comuni. È il simbolo della rivoluzione psichiatrica e della sua storia ma, a buon titolo, è un simbolo anche della Storia di questo Paese.
Per il sindaco di Muggia, paesino vicinissimo a Trieste, Marco Cavallo, invece, è «un ingombro», un inutile manufatto ospitato illegalmente in un magazzino della “sua” cittadina. Vero, quando non è “in tournée”, il cavallo azzurro trova rifugio in un magazzino a Muggia, come volle l’allora sindaco Nesladek ma, con la nuova amministrazione di destra, si devono abbattere simboli e storia. «L’ignoranza fa anche questo. Non si accontenta di nutrirsi di arroganza, non si limita al pensiero concepito nella più totale malafede ma tenta di distruggere la memoria. E la devastazione generata dalla sua perdita equivale alla perdita dell’umanità». Così scrive proprio Marco Cavallo sulla sua pagina Facebook.
MOZIONI, PROTESTE, a Muggia e a Trieste ma la destra sembra coerentemente perseguire dovunque la sua opera distruttrice. In Comune a Trieste mozione urgente di Adesso Trieste, sottoscritta anche da Pd e 5Stelle, ma cade nel vuoto. L’urgenza non c’è. I posti dove ospitare Marco Cavallo invece sì, e tanti, ma ci si penserà, forse, chissà.
«L’attuale sindaco, il leghista Polidori, determinato a ripulire con prepotente arroganza Muggia dagli scarti, dai devianti, dai poveri, dagli stranieri ha bisogno di spazio. Proprio di quello spazio nel deposito comunale. Per “l’ingombro Marco Cavallo” non c’è più posto. Brutto gesto, brutto segnale. Segno amaro dei tempi. Ma noi, che siamo dalla parte di Marco Cavallo, sappiamo che il cavallo azzurro, che in tanti viaggi ci ha accompagnato, troverà nuova ospitalità. Questo Paese non può permettere che si perdano le straordinarie conquiste che hanno restituito parola, visibilità e diritto ai matti». Così Peppe Dell’Acqua, psichiatra, al fianco di Franco Basaglia già nel 1971 e per tanti anni direttore del Dipartimento di Salute mentale a Trieste.
* Fonte/autore: Marinella Salvi, il manifesto
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