Il governo Meloni e le carceri

Il governo Meloni e le carceri

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È indubbiamente importante che Giorgia Meloni, nell’economia del suo discorso per la fiducia alla Camera, abbia voluto ricordare le carceri e, in modo specifico, i suicidi in cella, in drammatico aumento: «non è degno di una Nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro dei nostri agenti di Polizia penitenziaria». Significativo e appropriato il richiamo alla dignità: non è solo problema di assicurare una diversa “qualità della detenzione” per scongiurare, o perlomeno ridurre, il triste fenomeno. Come per ogni altro, occorrerebbe ragionare sulle sue cause. Le cifre indicano che il picco storico di detenuti suicidi precedente all’attuale (stando ai dati ufficiali) era stato nel 2001, l’anno della grande delusione dopo la mancata amnistia nella ricorrenza del Giubileo, perorata da papa Giovanni Paolo II e sostenuta da un inedito e vastissimo cartello di associazioni, sindacati, reti di volontariato.

Il numero odierno (71 suicidi, ha detto la premier, in realtà già superato) rimanda in evidenza al surplus di sofferenze e insofferenze determinato dal periodo pandemico e dalle lunghe chiusure e ulteriori limitazioni conseguenti.

Superata – si spera – la fase più critica e intensa della pandemia si sono archiviate e dimenticate quelle sofferenze e insofferenze (che, va ricordato, riguardano sia i reclusi sia la polizia penitenziaria), compresa la strage di 13 detenuti del marzo 2020, un fatto “sudamericano”, di inedita gravità. Più o meno come si è fatto, del resto, nella società esterna, non considerando e non supportando adeguatamente le ferite psicologiche e l’aggravio di condizioni residuati dalla pandemia e dai lockdown. Con la differenza che in un mondo già chiuso, per definizione e per materialità, tutto ciò è divenuto implosivo, a rischio quotidiano di divenire esplosivo.

Avere consapevolezza del problema (l’indegnità della condizione carceraria) è premessa ma non garanzia di un affrontamento adeguato ed efficace. Rischia di non esserlo se, come ha poi detto Giorgia Meloni, il suo governo punti a rimettere «al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri».

Se per quest’ultimo si intende il rilancio di un “Commissario straordinario” e, soprattutto, la costruzione di nuove carceri quale supposto rimedio allo stato di – cronico – sovraffollamento, si tratta di un film (un fallimento) già visto. In passato ha prodotto semmai inchieste per corruzione e sperpero di pubbliche risorse, mai un miglioramento nelle condizioni di detenzione. La vera risposta non sta nell’edilizia ma nella logica, nella cultura che presiedono alle politiche penitenziarie. Riconoscere dignità a chi è recluso comporta necessariamente un’idea della pena non vendicativa e non afflittiva. In questo senso, l’unico vero “piano carceri” sarebbe quell’insieme di misure individuate dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale, conclusisi nel 2016 dopo due anni di intensi e produttivi lavori che avevano coinvolto centinaia di esperti, colpevolmente non tradotti, come dovuto e promesso, in effettive riforme dall’allora governo di centrosinistra.

Chissà se, paradossalmente, un governo di opposto orientamento non trovi il coraggio e la lungimiranza di ripartire da lì. Ascoltando in questo modo anche la voce e le competenze delle migliaia di volontari che da sempre portano supporto, pratico e morale, nelle prigioni, impedendone per quanto possibile l’ulteriore disperazione e tracollo, in supplenza di governi e forze politiche indisponibili e incapaci o, peggio, indifferenti.

È quello che le ha chiesto di fare, il giorno dopo al Senato, un’altra donna, invitando la nuova premier «a visitare il mondo del volontariato, che ho avuto la fortuna di conoscere. Sono convinta che cambierà idea su tante realtà e sulle tante possibilità di riscatto che hanno gli ultimi». Sono parole di Ilaria Cucchi, la cui coraggiosa storia di dolore e impegno ricorda a tutti come di carcere, di pena vendicativa e di disprezzo per chi sbaglia si muoia, non solo per suicidio ma per violenza dell’istituzione.

Il mio auspicio è che, se non a Ilaria, Giorgia Meloni dia ascolto a papa Francesco, cui ha rivolto un saluto affettuoso, applaudita da ministri e deputati levatisi in piedi. Di fronte al sovraffollamento delle celle, le parole del pontefice sono state, al solito, nette e inequivoche: «Il sovraffollamento delle carceri è un muro, non è umano! Qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra».

Questo sarebbe l’unico vero e credibile programma per le carceri: abbattere muri, aprire finestre, costruire speranza.

C’è da dubitare che agli applausi dei parlamentari corrispondano azioni e impostazioni conseguenti. Era già successo appunto al predecessore, Giovanni Paolo II, quando in un’inedita e storica prolusione davanti alle Camere riunite invocò attenzione per le carceri e i detenuti e, in specifico, «un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena». I parlamentari si spellarono le mani negli applausi, ma la clemenza non venne, la campagna per l’amnistia e l’indulto venne così cinicamente spenta per mancanza di risposte politiche e di carcere si continuò a morire, più di prima.

A dispetto delle esperienze e del pessimismo, però, nella speranza anche meno plausibile bisogna continuare a credere. E chissà che, per necessità se non per convinzione, il nuovo governo non capisca che occorre urgentemente spegnere il fuoco sotto la pentola che bolle pericolosamente da troppo tempo, nell’incuria e assenza di reali risposte da parte dei governi di tutti i colori.

 

* Fonte: Sergio Segio, Vita.it

 

 

Foto: opera dell’artista Celeste Roberge



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