Il sociologo: «Sul reddito è la lotta dei penultimi contro gli ultimi»
Aldo Bonomi: la Lega ha perso le «città-distretto», la sinistra i grandi centri. E ora? Bisogna «fare società» contro il rancore
«Per capire bisogna assumere uno sguardo sottostante: guardare la base della piramide, quelli che stanno sotto». Aldo Bonomi, sociologo e coordinatore del Consorzio Aaster da anni indaga le pieghe del rapporto tra economia e società, la relazione tra flussi e luoghi dentro la globalizzazione. Da questa prospettiva ha descritto la fine del fordismo e la nascita prima del capitalismo molecolare e poi di quello delle piattaforme. Ora accetta di discutere con il manifesto dei risultati delle elezioni politiche.
Dunque, cosa vede dal lato dei sottostanti?
Osservo la scomposizione e ricomposizione dei soggetti sociali, studio la composizione tecnica dei processi produttivi. Lo schema che adopero prevede che i flussi abbiano in impatto sui luoghi e sulle vite minuscole. Le cambiano socialmente, culturalmente, antropologicamente e direi anche politicamente. Seguendo questo schema traggo la prima conclusione: queste elezioni sono il fallimento delle élite, che non sono più in grado di produrre egemonia culturale e tranquillità sociale. Questo mi pare il primo dato dato su cui ragionare.
Cosa ha prodotto questo fallimento?
I flussi prima erano rappresentati da cose diverse tra loro ma molto chiare: la finanza, le reti hard-soft (come l’Alta velocità, Amazon o internet), le migrazioni. Poi sono arrivati altri tre flussi che non sono solo economici e che impattano sulla composizione sociale: la pandemia, la guerra e il gap ambientale. Aggiungo anche il Pnrr, che era stato presentato come il flusso della speranza.
Tutto ciò che effetti ha prodotto nelle urne?
Bisogna guardare ai ceti medi impauriti e in crisi. Sono i tanti penultimi che temono di diventare ultimi. Tra questi, facendo una forzatura dal punto di vista della lettura ideologica, ci metto anche le piccole e medie imprese, i capitalisti molecolari, i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori della conoscenza, la classe creative e le partite Iva. Ora, ragionando in termini politologici anche se non è il mio campo, sa dove vedo la dimensione degli ultimi? Stanno in quel 37 per cento di astensione.
La politica ha sottovalutato questo tipo di fenomeni?
È lo iato di cui parlavo tra le élite e i sottostanti. Da anni succedono cose che ne sono l’effetto. Il leghismo e il grillismo sono stati segnali forti. Anche quello di oggi, il melonismo, è altrettanto forte e va interpretato. Per farlo bisogna ragionare in termini gramsciani di blocco sociale ed egemonia culturale. Se uno scompone e ricompone questo blocco sociale ritrova le piattaforme territoriali e quelle digitali, fatte di piccoli comuni e territori in polvere. Ci sono anche le città-distretto, lì dove c’è la crisi della Lega. È lì che Salvini ha perso i suoi penultimi. E poi bisogna considerare i cambiamenti delle città medie e delle città metropolitane, dove è finita l’egemonia della Ztl, a proposito di élite. Dentro le città metropolitane c’è la composizione dei nuovi ultimi, ci sono quelli che non hanno reddito di sopravvivenza. Ecco: nella guerra tra i penultimi e gli ultimi la posta in palio era il reddito di cittadinanza.
Che fare?
Bisogna fare società, bisogna dare vita a politiche e forme di rappresentanza che si interpongano tra gli ultimi e i penultimi. Tra economia e politica, rimettere in mezzo la società. Bisogna lavorare sulle dissolvenze, sulla dissolvenza della Lega sul territorio e la dissolvenza dei partiti della sinistra.
La povertà politica a sinistra contrasta con la ricchezza delle esperienze sociali sui territori.
È così. Faccio un esempio: durante la pandemia ci siamo accorti che avevamo costruito un welfare verticale, ci siamo accorti che lo Stato non aveva la capacità di percorrere l’ultimo miglio. Quello spazio per fortuna era coperto da un tessuto orizzontale di militanza sociale. Ma la politica non ha capito nulla e ha continuato come prima, pensando che fosse sufficiente delegare tutto ciò alla Caritas.
Invece queste pratiche sono centrali?
Sono distretti sociali evoluti, interrogano l’economia e i modelli di sviluppo. Questa nebulosa è effervescenza sociale, è quella che chiamo la comunità di cura larga. Non è solo l’associazionismo, il volontariato o il terzo settore. È anche la medicina di territorio, le scuole, gli psicologi, il sindacato e le nuove rappresentanze, le organizzazioni delle piccole partite Iva e dei lavoratori creativi. Si riparte da qua, altrimenti vince la comunità rancorosa.
Il rapporto tra sfera sociale e dimensione politica è il nodo irrisolto di questi anni di crisi della sinistra. Che nesso c’è tra il fare società e il potere costituente?
Le esperienze di cui parlavo prima sono oasi. Noi dobbiamo capire come fare carovana tra le oasi. Prima di ripartire per il deserto, per attraversarlo e fare esodo, ci si ritrova per il caravanserraglio. Di oasi in oasi, si fa carovana. La carovana non ha a che fare la forma-partito. Basta andare in giro per l’Italia, è tutto un pullulare di fermenti che rimangono chiusi e autoreferenziali e che devono fare carovana. È questa, adesso, la grande questione politica.
* Fonte/autore: Giuliano Santoro, il manifesto
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