Migranti. Le testimonianze dopo la strage di Melilla: «Lasciati morire»
LE ACCUSE DEI SUPERSTITI. Sull’autobus che li portava ad Agadi, alcuni sono morti durante il viaggio
«La polizia marocchina ci ha portati ad Agadir in autobus. Eravamo feriti, ma non gli importava. Alcune persone sono morte durante il viaggio. Ci hanno abbandonati senza vestiti né cibo». Lo racconta a El Español Yousef, un ragazzo sudanese che il 24 giugno ha partecipato al tentativo di penetrare a Melilla che si è saldato con la morte di 37 migranti.
Ci vogliono 12 ore per raggiungere Agadir da Nador, la città marocchina più vicina a Melilla. Yousef ha viaggiato con una ferita in testa. Come a lui, a centinaia di migranti è stato impedito di farsi curare in ospedale le ferite riportate nel tentativo di arrampicarsi sulle reti o causate dall’intervento dei gendarmi marocchini.
Il giorno dopo la scalata alle recinzioni che blindano l’enclave spagnola, Rabat ha fatto deportare nel sud del paese 1.300 migranti che non erano riusciti nell’impresa. Altri 65 sono in galera, a processo per vari reati. L’intento è allontanare il più possibile dalla frontiera tutti coloro che sembrano immigrati irregolari pronti a scalare i reticolati o a salire su un barcone. Le retate e le deportazioni sono iniziate a marzo, quando il Marocco ha riallacciato i rapporti con Madrid dopo che Pedro Sánchez ha riconosciuto l’annessione a Rabat del Sahara Occidentale occupato dal regno di Mohammed VI negli anni ‘70. Da allora, gli agenti marocchini proteggono Ceuta e Melilla con sistematicità e brutalità. È tale lo zelo che nelle retate finiscono anche immigrati in regola con i documenti o che hanno ottenuto la protezione dell’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati.
«I marocchini ci hanno ucciso e lasciato morire» denuncia a Público Nasreddin Kenu, uno dei migranti che è riuscito a saltare le barriere ed è stato rinchiuso per giorni nel Centro di Permanenza Temporanea di Melilla.
È arrivato dal Sudan, a piedi; ha 19 anni e ci ha messo quattro anni per attraversare Ciad, Libia, Algeria e Marocco. Sui monti attorno a Nador si è organizzato con altre migliaia di subsahariani per tentare l’assalto al settore di barriera del «Barrio Chino», più vecchio e vulnerabile. Ringraziando gli agenti marocchini per il lavoro svolto, il premier spagnolo Sánchez ha puntato il dito contro «le mafie che gestiscono la tratta di esseri umani», accusate di aver programmato un «assalto violento e organizzato». «Le più grandi mafie del Marocco sono il governo e la polizia. Sui monti di Nador nessuno è in grado di pagare un’organizzazione mafiosa» spiega Nasreddin. Le ong che ai due lati della frontiera coordinano le proteste e i soccorsi spiegano che chi ha soldi da dare ai trafficanti lo fa semmai per salire su un barcone diretto alle Canarie o in Italia. Ma dalla Libia è diventato sempre più caro e pericoloso partire; così in molti, provenienti soprattutto da Ciad, Sudan, Sud Sudan, Niger ed Eritrea, si spingono ora fino al Marocco.
Scalare le reti di Ceuta e Melilla è gratis, economicamente parlando. Ma gli accordi tra Madrid e Rabat, dicono le associazioni che venerdì hanno manifestato in 60 città della Spagna, rendono questa via sempre più rischiosa. Omar Naji, presidente dell’Associazione Marocchina per i Diritti Umani, ha cercato di entrare nell’obitorio di Nador per confrontare i volti dei cadaveri con le foto dei giovani scomparsi che alcune famiglie gli hanno mandato dal Sudan. Non gli hanno permesso di entrare.
* Fonte/autore: Marco Santopadre, il manifesto
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