Allargamento NATO. Il ricatto e la black list turca per estradare il dissenso
Nella lista dei desiderata turchi per Svezia e Finlandia ci sono curdi, turchi, scrittori, giornalisti di sinistra e islamisti. Un candidato al Nobel e anche un morto. Ma tanto c’è Di Maio che li rassicura: «Nessuna ripercussione». E Guerini distingue tra «curdi buoni» e «curdi cattivi»
Sono giorni gloriosi per la stampa filo-governativa turca. C’è di che sbizzarrirsi con i 73 nomi nella lista dei desiderata di Ankara. Ma i numeri variano, pare che la Turchia abbia richiesto 33 estradizioni alla Svezia e 12 alla Finlandia.
E se di numeri (e tanto meno di nomi) non c’è traccia nel memorandum siglato al summit della Nato a Madrid lo scorso martedì da Stoccolma, Helsinki e Ankara, sotto lo sguardo compiaciuto del segretario generale Stoltenberg, sui media turchi qualche nome circola. E circola anche negli ambienti della dissidenza turca all’estero.
CI SONO CURDI TURCHI, turchi turchi, giornalisti, intellettuali di sinistra, islamisti, un candidato al Nobel per la Pace e anche un morto. Un po’ di tutto nell’ampio arco dei nemici del presidente Erdogan.
Sui media turchi sono tutti bollati in due modi, due maxi etichette che annullano differenze e appartenenze: membri del Pkk, il Partito curdo dei Lavoratori, e membri di Feto, la rete islamista dell’imam Fethullah Gulen, che da ex alleato di ferro dell’Akp ne è diventato uno dei principali spauracchi.
Il nome più noto è Ragip Zarakolu. Nato nel 1948 a metà tra la comunità greca e quella armena di Istanbul, è tra i più noti scrittori ed editori del paese. Nel 1977 ha fondato la Belge Publishing House, da allora la censura è stata un martello pneumatico: pubblicava libri di ex prigionieri politici, sulla questione armena, quella curda.
Nel 1979 ha fondato il quotidiano Demokrat, messo al bando nel 1980 con l’altro golpe. Ha iniziato a entrare e uscire dal carcere molto prima che Abdullah Ocalan fondasse il Pkk: la prima volta nel 1971 per cinque mesi, dopo il golpe.
Da allora condanne, divieti di espatrio e confische dei suoi libri. Dal 2013 è esule in Svezia, di cui è ormai cittadino: l’ultimo processo in Turchia risale al 2011, con l’accusa di appartenenza al Pkk e di partecipazione nel 2009 a un’assemblea del Bdp, sinistra pro-curda progenitrice dell’Hdp. Conti congelati e mandato d’arresto dell’Interpol.
Il 3 giugno scorso sul manifesto spiegava il tentativo di estradare la deputata curda svedese Kakabaveh: «La Turchia, anche al di fuori dei suoi confini, è contro la rivendicazione dei diritti dei curdi»
IN LISTA CI SAREBBE anche il poeta curdo Mehmet Sirac Bilgin. La sua biografia spiega bene perché il governo turco lo brami: i suoi guai sono iniziati all’università, ad Ankara, fu espulso da Medicina per le sue attività politiche (all’epoca legate ai Barzani, clan autoritario e filo-turco che da decenni governa il Kurdistan iracheno ma che negli anni Sessanta era l’anima della ribellione curda in Iraq).
In Turchia è stato arrestato dopo i golpe del 1971 e del 1980. Ha cercato rifugio in Svezia dove ha continuato a scrivere sul quotidiano filo-curdo Özgür Gündem, considerato da Ankara penna del Pkk tanto da essere chiuso innumerevoli volte, l’ultima nel 2016, decine i giornalisti incarcerati. Insomma la biografia c’è. Peccato che Mehmed Sirac Bilgin sia morto nel 2015 a 71 anni.
Sono vivi e sono giornalisti Bülent Kenes e Levent Kenez. Per loro l’accusa è diversa: niente Pkk, per il governo sono gulenisti. Entrambi continuano a lavorare in Svezia dopo esperienze in quotidiani islamisti più o meno governativi in Turchia.
Il primo, Kenes, era direttore di Today’s Zaman, sito di informazione in lingua inglese considerato dal governo vicino a Gulen e per questo prima commissariato dall’esecutivo e poi chiuso con decreto presidenziale dopo il golpe del 2016 e l’ovvio giro di vite dei giornalisti. Tra loro Kenes.
Sul secondo, Kenez, editorialista su Zaman, pesa l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica armata. In Svezia lavora per Nordic Monitor.
In lista c’è anche Harun Tokak, classe 1955, scrittore e giornalista turco per l’islamista Yeni Safak. Ha lavorato anche per il governo, consulente del ministero dell’educazione e del primo ministro. Ora è ricercato per terrorismo: «gulenista».
DALLA PARTE OPPOSTA della barricata sta Hamza Yalçın, segnalato come membro del partito marxista leninista turco THKP-C. Scrittore e giornalista, per due volte prigioniero politico, è diventato cittadino svedese nel 2007 dopo 20 anni di asilo politico nel paese. Eppure, dieci anni dopo, è stato arrestato a Barcellona su segnalazione turca all’Interpol: due mesi dentro con l’accusa di terrorismo, poi il rilascio.
Tra gli ex amici in black list c’è Murat Cetiner. Esperto di cyber security, ha lavorato con l’Onu, l’Osce, la stessa polizia turca. Poi è finito nel mirino anti-gulenista ed è fuggito. Oggi lavora per Nordic Minitor che tre anni fa ha scovato documenti che mostravano le attività di spionaggio e intimidazione dei servizi turchi in terra svedese a scapito di giornalisti e dissidenti. Tra loro Cetiner.
Asilo svedese anche per Mehmet Demir, ex co-sindaco di Batman per l’Hdp fino alla sua rimozione, uno delle decine di amministratori arrestati nel Kurdistan turco con l’accusa di legami con il Pkk. Demir è stato catturato il 23 marzo 2020 in una retata di massa contro il partito di sinistra.
A RASSICURARE gli estradabili è il ministro degli esteri italiano Di Maio: ieri si diceva certo che il memorandum atlantico non avrà «ripercussioni sul popolo curdo».
Quello della difesa Guerini garantiva due giorni fa che la posizione italiana sui curdi non cambia: un conto è il Pkk, ha detto, he quello sì che è terrorista, un conto chi combatte l’Isis. Grande è la confusione sotto il cielo di Roma.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto
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