Speculazione finanziaria. Il rialzo dei tassi d’interesse è benzina sul fuoco
In molti settori, l’aumento dei prezzi non è causato da incrementi di costi di produzione ma da un aumento del margine di guadagno. Si chiama inflazione da profitto
A luglio la Bce alzerà di un quarto di punto i tassi d’interesse. La Federal Reserve e la Bank of England lo hanno già fatto. Il motivo è contrastare l’incremento dei prezzi. Ma la cura aggrava la malattia.
L’assunto teorico sta nella credenza di una diretta relazione tra offerta di moneta e livello dei prezzi, che si basa sugli studi di Milton Friedman e di Anna Schwartz relative all’economia Usa sino al 1960. Tale assunto, da cui discende il corollario che il modo più efficace per far diminuire l’inflazione sia ridurre l’offerta di moneta via aumento dei tassi d’interesse, fa riferimento, però, a un mondo che oggi non esiste più. Per il mainstream economico, la storia non conta.
Con il crollo di Bretton Woods, la moneta si smaterializza del tutto, perde ogni connotato di moneta-merce: diventa pura “moneta segno” (per dirla con Marx). Tale passaggio scompagina in modo irreversibile il piano teorico fino a quel momento dominante nell’analisi macroeconomica (sia esso quello della sintesi neoclassica di Keynes o monetarista). La speculazione finanziaria (prima sul mercato delle valute e poi sugli altri mercati dei titoli) diventa il modus operandi della finanza. Le Banche Centrali perdono sempre più il monopolio di emissione della moneta a fronte del ruolo crescente delle nuove convenzioni che le oligarchie finanziarie (pochi operatori multinazionali) sono in grado di attivare.
Le plusvalenze, aumentando la liquidità monetaria in circolazione, iniziano a mettere in moto un moltiplicatore finanziario che, sostituendosi progressivamente a quello keynesiano, fondato sul disavanzo pubblico, favorirà la privatizzazione dei sistemi del welfare e la stessa finanziarizzazione della distribuzione del reddito su base individuale (divenire rendita del profitto e di parte del reddito da lavoro).
Al fine di favorire tale moltiplicatore, le autorità monetarie in questi anni hanno agito diminuendo i tassi d’interesse, in un processo di crescente dipendenza dalle dinamiche speculative (altro che “autonomia”). Si tratta della politica monetaria che, non a caso, è stata perseguita negli Usa (crisi dei subprime del 2007-08) e in Europa dopo la crisi dei debiti sovrani del 2011. Oltre a tenere i tassi d’interessi sul debito pubblico sufficientemente bassi, si voleva favorire l’erogazione di credito all’economia reale per sostenere la crescita. Se il primo obiettivo è stato raggiunto, il secondo è stato un totale fallimento, dal momento che, come era facilmente prevedibile, l’ammontare di liquidità creata a partire dal 2015 (pari a circa a 2.900 miliardi di euro, il 20% del Pil europeo), lungi dal favorire gli investimenti, è stata invece una manna per i mercati finanziari a vantaggio, soprattutto, dell’attività speculativa.
I falchi dell’austerity, soprattutto in Europa, paventavano che in tal modo si rischiava di innescare un processo inflazionistico, come quello che si era verificato durante la crisi fordista degli anni Settanta: un rischio che non si è verificato. Il legame di una moneta creata ex-nihilo con la produzione reale è oramai inesistente, grazie proprio al ruolo assunto dai mercati finanziari, il vero ambito in cui si crea (e si distrugge) moneta, così come è inesistente il legame tra crescita dell’offerta di moneta e aumento dei prezzi. Lo dimostra il fatto che nonostante l’enorme ammontare di liquidità immesso sui mercati creditizi, il tasso d’inflazione europeo era al di sotto dell’obiettivo programmato del 2%.
Si potrebbe ora dire che la recente impennata dei prezzi pone una situazione del tutto nuova. Ma quali son le cause che hanno portato all’aumento del tasso di inflazione? Si tratta di una discussione aperta ma di una cosa possiamo essere certi: la responsabilità non è della politica monetaria espansiva. Anzi, una politica monetaria restrittiva, che con l’aumento dei tassi d’interesse, riduca la liquidità in circolazione per fini antinflattivi rischia di avere come unico risultato quello di favorire una spirale recessiva. Si tratterebbe di una situazione deleteria proprio in una congiuntura che vede la dinamica del Pil rallentare a livello globale a causa delle tensioni geopolitiche in corso.
A differenza degli anni Settanta, l’aumento dei prezzi è avvenuto in assenza di un aumento dei salari e del costo del lavoro, anzi In Italia si è verificato l’opposto: nel primo trimestre 2022 il costo del lavoro si riduce dello 0,2%, (dati Istat). In molti settori, l’aumento dei prezzi non è causato da incrementi di costi di produzione (se non in maniera contenuta) ma dall’aumento del margine di guadagno (mark-up). Siamo cioè in presenza di un’inflazione da profitto.
Da questo punto di vista una politica monetaria restrittiva sarebbe del tutto inefficace e avrebbe l’effetto di buttare benzina sul fuoco, senza intervenire sulle vere cause dell’inflazione, e, ancora una volta a sostegno della profittabilità del sistema delle grandi imprese. Se la situazione bellica in atto porta a un processo di trasformazione della biopolitica in necropolitica, altrettanto si può dire dell’economia: dalla bio-economia alla necroeconomia.
* Fonte/autore: Andrea Fumagalli, il manifesto
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