by Luca Celada * | 1 Giugno 2022 10:49
CRISI UCRAINA. 3.4 milioni di ettari in mano ad aziende straniere e società partecipate da fondi esteri
È recentemente rimbalzato sui social (compresa la pagina Facebook de “il Giardiniere”) un testo che denuncia che «tre grandi multinazionali statunitensi hanno comprato da Zelensky 17 milioni di ettari di ottima terra». Precedentemente la presunta vendita di «mezza Ucraina a Monsanto Cargill e Dupont» era stata amplificata su una piccola galassia di siti variamente complottisti che in alcune versioni denunciano anche la responsabilità dell’immancabile George Soros e delle élite della finanza globale (compresi Warren Buffet, Bill Gates e i fondi di investimento Blackstone, BlackRock e Vanguard).
Dietro alle semplificazioni scarsamente documentate, variamente strumentalizzate e con lunga coda di indignati commenti, esiste un elemento di verità effettivamente legata agli interessi economici convergenti sull’Ucraina da ben prima dell’invasione russa. Una serie di rapporti dell’osservatorio economico Oakland Institute hanno documentato già da vari anni gli interessi macroeconomici che hanno fatto dell’ex repubblica sovietica un oggetto di intensa contesa sin dalla caduta dell’Urss.
L’UCRAINA POST-SOVIETICA con i suoi 32 milioni di ettari arabili di ricco e fertile suolo nero (detto “cernozëm”), dispone dell’equivalente di un terzo di tutto il terreno agricolo esistente nell’Unione europea. Con la fine della collettivizzazione socialista sono quindi “entrati in gioco” una quantità senza precedenti di ettari “vergini” da immettere sul mercato, un potenziale ghiotto boccone per le banche e le multinazionali agroalimentari.
Si tratta dopotutto del celebrato “granaio d’Europa”, con una produzione annuale di 64 milioni di tonnellate di cereali e sementi, fra i maggiori produttori mondiali di orzo, frumento e olio di semi di girasole (di quest’ultimo l’Ucraina produce circa il 30% del totale mondiale). Sin dagli anni ‘90 si scatena dunque la corsa per mettere le mani su quello che Jeff Rowe, direttore della DuPont per l’Europa, definirà «uno dei mercati agroalimentari di maggiore potenziale crescita al mondo».
«NELL’EUROPA ORIENTALE», scrive l’economista inglese Michael Roberts di questa fase, «l’Ucraina è forse il paese che subisce più duramente la ‘terapia shock’ della restaurazione capitalista». L’economia infatti è duramente colpita, per i 30 anni successivi all’indipendenza redditi e qualità di vita rimangono sotto i livelli del 1990, la povertà dilaga. Non per tutti ovviamente. La “riconversione” segue il consueto modello, una classe di oligarchi e una ristretta élite si arricchisce smisuratamente depredando il settore pubblico con la complicità del classe politica.
LA NOMENCLATURA viene corteggiata da Russia e Occidente con opposti pacchetti di “assistenza capestro” che mirano a mantenere l’Ucraina nelle rispettive sfere di influenza. La tensione fra gli opposti schieramenti di influenza economica è la dinamica che sottende sin dall’inizio la politica dell’Ucraina indipendente, incapsulata nello scontro/avvicendamento di Yanukovich e Yushenko. Secondo Frédéric Mousseau, direttore dell’Oakland Institute il contenzioso «geoeconomico» sull’Ucraina «rappresenta il maggior scontro fra i due blocchi rivali dai tempi della guerra fredda».
Con i fatti di Maidan, nel 2014, prevale il campo occidentale, mentre Putin risponde prendendosi la Crimea e muovendo guerra in Donbass. Gli sviluppi segnano l’inizio dell’”annessione” dell’Ucraina alla sfera economica euro-atlantica e quella che Mousseau ed Elisabeth Fraser in un rapporto di quell’anno intitolato The Corporate Takeover Of Ukrainian Agriculture in cui raddoppia la spinta delle istituzioni finanziarie occidentali per «aprire il vasto comparto agricolo ucraino alle multinazionali».
DA OCCIDENTE arrivano armi e soldi sotto forma di pacchetti di assistenza della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Al solito i crediti sono fortemente vincolati a riforme che l’Ucraina è tenuta ad intraprendere all’insegna del rigore fiscale e dell’austerity. Sempre secondo Mousseau «l’insistenza con cui l’Ucraina è spinta a privatizzare il mercato terriero non ha precedenti nella storia recente». Per limitare una privatizzazione selvaggia, nel 2001 viene imposta una moratoria sulla vendita di terreni a stranieri. Da allora l’abrogazione di questa norma è stato un obbiettivo principale delle istituzioni occidentali. Già nel 2013, ad esempio, la Banca Mondiale aveva stanziato un prestito di 89 milioni di dollari per lo sviluppo di un programma di rogiti e titoli catastali necessario alla commercializzazione di terreni demaniali e cooperative.
Le banche occidentali, inoltre, impongono ottimizzazione e consolidamento di aziende agro-industriali a scapito dei piccoli produttori, che costituiscono tuttora la maggioranza nel paese, con l’obbiettivo di aumentare il «valore aggiunto» e, come scritto in un documento della Banca Mondiale del 2019, «accelerare l’investimento privato nell’agricoltura». Sullo stesso rapporto si legge che «un incremento del 30% della produttività agricola potrebbe risultare in 4,4 punti di crescita del Pil nazionale in cinque anni, e del 12,5% in dieci anni». È lecito presumere che le percentuali di crescita dei produttori agricoli privati vedrebbero incrementi ben maggiori.
MALGRADO LA MORATORIA già nel 2016 dieci multinazionali agricole erano giunte a controllare 2,8 milioni di ettari di terre. Oggi le stime parlano di 3,4 milioni di ettari in mano ad aziende straniere e società ucraine partecipate da fondi esteri. Altre stime arrivano fino a 6 milioni di ettari. La moratoria sulle vendite ripetutamente chiesta dal dipartimento di Stato, Fmi e Banca mondiale è stata infine abrogata dal governo Zelensky nel 2020 in vista di un referendum definitivo nel 2024. Eppure nel gennaio di quest’anno un rapporto della Usaid, l’agenzia americana per l’assistenza e la cooperazione, lamentava come «l’assenza di un affidabile mercato dei terreni limita ancora la crescita economica».
E questo nonostante un’analisi di Open Democracy dell’ottobre scorso rivelasse che dieci aziende private controllavano il 71% del mercato agricolo ucraino, comprese «oltre all’oligarchia ucraina, corporation come Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill, Monsanto, Louis Dreyfus e l’azienda statale cinese COFCO». A questa lista vanno aggiunte secondo l’ultimo rapporto in materia dell’ Oakland Institute, multinazionali come la lussemburghese Kernel, la holding americana NCH Capital, la saudita Continental Farmers e la francese AgroGenerations.
NELL’ARREMBAGGIO spiccano le aziende europee ed il ruolo della Ue aumenta soprattutto dopo la firma dell’accordo di associazione economica fra Ucraina e l’Unione entrato in vigore nel 2017. Quell’accordo, denunciato già all’epoca dalla Russia come grimaldello per favorire l’accesso delle multinazionali occidentali, comprende la promozione della «moderna produzione agricola…. Compreso l’uso delle biotecnologie», un’apparente apertura a colture Ogm nei campi extracomunitari ucraini. Lo sviluppo agroalimentare in Ucraina e nell’Europa dell’est fa comunque parte del piano strategico della Commissione europea per incentivare i «raccolti proteici» e riconvertire in quelle regioni la produzione principalmente di soia il cui fabbisogno è al momento in gran parte dipendente dalle importazioni da Argentina e Brasile.
LA GUERRA promette ora di scompaginare sul breve termine il grande progetto liberista in corso, soprattutto per le interruzioni della filiera delle esportazioni. Un’altra incognita riguarda poi come l’inagibilità dell’Ucraina potrà influire sulle rotte di distribuzione cinesi verso l’Europa previste dal piano cinese Belt & Road cui il paese aveva aderito. Ma con un riallineamento geo-economico globale di cui la guerra promette di essere una svolta cruciale, l’Ucraina continuerà prevedibilmente a rimanere fulcro importante, pur nel quadro di una forte instabilità globale.
* Fonte/autore: Luca Celada, il manifesto[1]
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