by Chiara Cruciati * | 26 Giugno 2022 11:27
Le leggi degli Stati repubblicani pari a quelle in vigore in Afghanistan e in Arabia saudita. In Israele decide il comitato medico, in Siria e Yemen la famiglia. Tunisia come l’Italia. Divieto totale in 19 paesi del mondo. Ma c’è anche qualche luce, accesa dai movimenti femministi
Negli ultimi trent’anni 59 paesi hanno garantito un maggiore accesso all’aborto. Altri undici lo hanno ristretto. Tra questi, come nota Foreign Policy, ci sono i rivali di sempre degli Stati uniti: Russia, Iran e Corea del Nord.
Ma a quanto pare c’è un elemento che supera confini: non è l’amore, ma il patriarcato. Il dominio maschile sul corpo e le libertà delle donne, ovunque si vada, è minimo comune denominatore di regimi più o meno democratici, dittature, autoritarismi. Non a caso il movimento femminista del nuovo millennio appare la sola forma di dissenso realmente transnazionale.
Capita così che da oggi le donne del del Missouri, dell’Arkansas o dell’Alabama, siano messe peggio delle maliane, le polacche e le bahranite: loro possono abortire nel caso di incesto o stupro, le americane no.
PER CAPIRCI MEGLIO: le più restrittive leggi promosse dagli Stati repubblicani[1] negli Usa sono pari alle normative dell’Afghanistan talebano che impone il burqa alle donne e caccia le bambine da scuola (e per questo meritava un po’ di esportazione di democrazia) e del Myanmar della giunta militare.
E molto simili al divieto in vigore in Arabia saudita: anche a Riyadh l’aborto è possibile solo in caso di minaccia alla vita della madre e serve comunque il via libera del marito e della famiglia.
Da queste parti, come in molti altri paesi del Golfo, a definire la vita sociale è il sistema del guardiano: le donne, cittadine di serie B, non possono studiare, lavorare, viaggiare, addirittura uscire di prigione, senza il consenso di un uomo.
A oggi nel mondo l’aborto è totalmente illegale in 19 paesi: Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Giamaica, Haiti, Repubblica Dominicana, Suriname, Andorra, Malta, Città del Vaticano, Egitto, Mauritania, Senegal, Sierra Leone, Congo, Madagascar, Iraq, Laos e Filippine. Significa che il 5% delle donne in età riproduttiva nel mondo, 90 milioni di persone, non può accedervi legalmente per alcun motivo.
Secondo il Center for Reproductive Rights[2], buona parte dei paesi extra-europei, dall’America latina all’Asia orientale, prevede restrizioni serie: c’è chi lo permette solo in caso di minaccia per la vita della donna (Venezuela, Guatemala, Nigeria, Afghanistan), chi aggiunge i casi di stupro e incesto (Brasile, Venezuela, Sudan, Mali), chi di malformazione del feto (Iran, Messico, Panama), chi richiede l’autorizzazione del partner o dei genitori (Arabia saudita, Siria, Yemen, Emirati arabi).
L’INDIA PREVEDE l’aborto anche su basi economiche e sociali: povertà, disagio familiare, gravidanze fuori dal matrimonio. In Africa il Benin, il Mozambico e il Sudafrica riconoscono pieno accesso all’aborto entro le 12 settimane. La Tunisia è come l’Italia: aborto su richiesta entro i tre mesi di gestazione.
In Europa un divieto totale esiste solo in tre Stati-enclave, Malta, Vaticano e Andorra. Della lista faceva parte anche San Marino fino a un anno fa, poi un referendum ha depenalizzato l’Ivg con il 77% dei consensi mettendo fine a 156 anni di illegalità.
L’opposto di El Salvador che invece di avanzare è retrocesso: dopo la lunga battaglia della chiesa cattolica nel 1998 l’aborto è stato criminalizzato in ogni sua forma, compreso il rischio per la vita della donna (si rischiano fino a 50 anni di galera per omicidio aggravato, lo racconta la storia di Manuela: condannata a 30 anni per aborto spontaneo, è morta in carcere di tumore).
La Polonia[3] il passo indietro l’ha fatto molto più di recente: nel 2020 Ivg cancellata se non in caso di stupro, incesto o rischio per la donna.
NEL BUIO appaiono però luci, accese dalle donne e dai movimenti femministi. In Colombia quest’anno la Corte costituzionale ha depenalizzato l’aborto entro le 24 settimane, dopo la mobilitazione della «marea verde».
In Cile[4], dopo la storica vittoria alla Camera nel 2021 (Ivg permessa entro la 14esima settimana), gli stessi deputati hanno bocciato un ampliamento della normativa finendo per cancellare anche la legge appena passata. Sarà ripresentata, garantiscono le donne cilene.
In Argentina[5], culla di Ni Una Menos, l’anno di svolta è il 2020: aborto garantito entro le 14 settimane. Un terremoto conquistato dalla mobilitazione delle argentine che si sono unite così ai paesi latinoamericani che non prevedono restrizioni, Cuba, Guyana Francese, Porto Rico e Uruguay. E un terremoto condiviso con le donne della Nuova Zelanda (depenalizzazione nel 2020) e dell’Irlanda (2018).
E se in Medio Oriente le normative risalgono al periodo coloniale europeo e il divieto totale è previsto solo in Egitto e Iraq, in Israele a decidere è un comitato medico. Dal 2014 – prima l’Ivg era prevista solo in caso di incesto, rischio per la donna, malformazione del feto e gravidanza fuori dal matrimonio – le donne israeliane che intendono abortire devono rivolgersi a un «comitato di interruzione» di tre membri, di cui almeno una donna: due medici e un assistente sociale che autorizzano l’operazione.
Questionario prima, colloquio vis-à-vis dopo: una pratica che non solo ritarda i tempi, ma che – denunciano le donne – sottopone a umiliazioni, al controllo sociale dello Stato e una limitazione palese della libertà di scelta.
* Fonte/autore: Chiara Cruciati, il manifesto[6]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2022/06/aborto-america-come-la-kabul-talebana-e-peggio-della-polonia/
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