by Giuliano Battiston * | 27 Maggio 2022 12:00
NELLA PROVINCIA DELL’HELMAND . Il divieto ha fatto solo crescere prezzi e guadagni. Resta ferreo solo il controllo sui media. E la sicurezza può costare caro
«Questo sì, questo no». Sguardo torvo e sfuggente, telefono costantemente alla mano, è un uomo di poche parole il mawlawi Hafiz Rashid, il religioso che l’Emirato ha voluto a capo del dipartimento per l’Informazione e la Cultura a Lashkar Gah. Vuole sapere con esattezza i temi di cui vogliamo occuparci, le storie da raccogliere, i dipartimenti da visitare. Non è curiosità, ma controllo: siamo nella provincia meridionale dell’Helmand, tra le più conflittuali degli ultimi venti anni di guerra. Lo testimoniano le statistiche dell’ospedale di Emergency, presidio cruciale qui, nel capoluogo della prima provincia afghana per produzione di oppio, da inizio aprile formalmente bandito.
NELL’HELMAND non si combatte più. Il territorio, conteso da truppe statunitensi, britanniche, danesi a sostegno di quelle governative, oggi è tutto nelle mani dei Talebani. Per molti – gli abitanti dei distretti di Sangin, Musa Qala e molti altri, costantemente bersagliati –, che non si combatta più è la cosa più importante. La sicurezza sbandierata dai Talebani comporta costi alti, ma erano alti anche i costi sociali e umanitari di prima. Case e raccolti distrutti, vite perdute.
Arriviamo a Lashkar Gah da Farah, cinque ore di strada infuocata ma asfaltata più a nord. Fino a pochi mesi fa, un tratto segnato da combattimenti, posti di blocco, mazzette. Oggi si viaggi spediti, con basse montagne appuntite che si alternano a paesaggi brulli. Qui e là, mulinelli di vento si avvitano su di sé, come la storia afghana. Arrivati a Gereshk si svolta a destra costeggiando uno dei canali che rendono fertile questa terra. Su entrambi i lati della strada, liscia come poche, contadini sui campi e qualche bottega. Sui bordi, accatastati, gli steli dei papaveri da oppio. La raccolta è finita. Gli affari no.
IL BANDO DEI TALEBANI è stato applicato con flessibilità, qui. «I Talebani si arricchiscono con l’oppio. Il bando è simbolico, e tutti lo sapevano. Fa guadagnare di più: è questione di domanda e offerta, molto semplice. Se c’è meno offerta, per via del bando, crescono il prezzo e i guadagni». Così ci racconta un giovane imprenditore di Lashkar Gah. «Prima insegnavo inglese, ma non va più tanto di moda da quando sono tornati i Talebani, così mi sono inventato un nuovo lavoro», continua il trentenne. «Il mio nome? Meglio di no».
Tra i Talebani dell’Helmand, uno dei gruppi principali del movimento, c’è malumore. I soldi ci sono, ma la rappresentanza politica è scarsa. I due posti principali non bastano. Abdul Qayum Zakir, esperto comandante militare, alle spalle Guantanamo, rapporti con capitali regionali e altalenanti con la Rahbari shura, massimo organo politico dei Talebani, è vice ministro della Difesa. Ibrahim Sadr, già capo della Commissione militare, anche lui a Guantanamo e vicino a Teheran, è vice ministro degli Interni, sotto Sirajuddin Haqqani, a capo dell’omonima rete e rappresentante dei Talebani dell’est.
GLI “HELMANDI”, qui nel profondo sud, si sentono sottorappresentati nel nuovo Emirato. Temono che vogliano farli fuori. «Nell’Helmand qualcuno ha letto il bando di Kabul sull’oppio non come una manovra tattica, rivolta alla comunità internazionale, ma come un tentativo di tagliargli le gambe», ci spiega un ricercatore esperto della galassia col turbante. «Non è escluso che le spinte per il velo integrale siano venute proprio dall’Helmand, per sabotare il piano». Politicamente esclusi, in quest’area i Talebani hanno la leva del danaro. I profitti dovrebbero finire al ministero delle Finanze, a Kabul, ma rimangono nelle casse dell’Helmand.
Secondo lo United Nations Office for Drugs and Crime, l’oppio rappresentava nel 2021 tra tra il 9 e il 14% del prodotto interno lordo afghano, includendo consumo interno ed export. L’Helmand è la prima provincia per produzione: il 62% degli ettari totali coltivati a oppio si trovano proprio qui. Nei distretti rurali, i bazar della resina preziosa. «Non ci si arriva no, sono controllati e gli stranieri non ce li vogliono mica». Anche altrove, pare.
«PER ANDARE IN GIRO a fare il tuo lavoro, per la tua sicurezza devi sempre essere accompagnato da un nostro mujahedin. Vacci a parlare». Dopo 9 ore di attesa, per telefono il mawlawi Hafiz Rashid ci dà il permesso di lavorare in città. Serviva il via libera del governatore, spiega. Un uomo che, raccontano in città, rifugge i contatti e che guarda gli stranieri con sospetto. «Vada a trovare i mujahedin e si accordi con loro», sollecita il mawlawi.
Sono in sette dentro una stanzetta spoglia e buia, qualche cuscino, qualche arma, odore forte. Quattro li avevamo incontrati in mattinata, seduti sopra una pedana di legno. Giovanissimi mujahedin di villaggi lontani, sdraiati o a gambe incrociate. Per la prima volta in città, tessono l’elogio della “terra dei turbanti”. Qari Mohamadullah recita una poesia di incoraggiamento al jihad. «L’ho scritta io», dice orgoglioso. 19 anni di cui 4 di jihad, è del distretto di Sangin. «Siamo felici dell’Emirato. Non riceviamo lo stipendio, abbiamo avuto una somma solo per l’Eid – fine del Ramadan -, ma lo facciamo per l’Islam, non per i soldi».
NEL TARDO POMERIGGIO il loro comandante, Ulfat, è schietto. «Hai bisogno di sicurezza, il mujahedin che verrà con te va pagato». Chiede 10mila afghanis, più di 100 euro. «Scherziamo?». Scende a 7mila. Rifiutiamo di trattare. Salutiamo e ce ne andiamo. «Fanno i puri, ma sono corrotti: pensano solo ai soldi. È gente senza ideali veri», commentano due amici sulla riva del fiume Helmand, mentre ragazzi in moto scivolano sulle acque basse.
* Fonte/autore: Giuliano Battiston, il manifesto[2]
ph by Puckett88, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons
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