Afghanistan. Gli USA ammettono: «Il nostro ritiro ha fatto collassare Ghani»

Afghanistan. Gli USA ammettono: «Il nostro ritiro ha fatto collassare Ghani»

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Il rapporto Sigar presentato al Congresso: riconoscimento delle responsabilità statunitensi, ma un colpo anche all’allora governo afghano. Ma manca un tassello: Washington non si era accorta – o aveva ignorato – l’avanzata talebana

 

Benché gli americani siano praticamente stati gli unici a tentare una riflessione sui vent’anni di guerra afghana, il risultato non è molto soddisfacente. In un rapporto al Congresso, l’Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar) ha provato a indagare le cause del crollo militare della Repubblica di Ashraf Ghani, difesa da un esercito (Andsf, circa 300mila uomini) costato al contribuente americano 90 miliardi di dollari tra il 2002 e il 2021 (e 800 milioni a quello italiano).

Secondo Sigar «il singolo fattore più importante del crollo dell’Andsf è stata la decisione degli Stati uniti di ritirare forze militari e contractor dall’Afghanistan con l’accordo Usa-Talebani nel febbraio 2020 sotto l’amministrazione Trump, seguita dall’annuncio di Biden nell’aprile 2021. A causa della dipendenza dalle forze militari statunitensi, questi eventi hanno distrutto il morale dell’Andsf». Vero, ma apparentemente riduttivo.

SECONDO IL REPORT la colpa sta anche nell’aver ridotto drasticamente i raid aerei (7.432 nel solo 2019) – levando un «vantaggio fondamentale per tenere a bada i Talebani» – e, con il richiamare i contractor, nell’aver ridotto i manutentori di apparecchi sofisticati. Inoltre, dice Sigar, «l’Andsf disponeva di armi e rifornimenti ma non aveva le capacità logistiche per spostarli». Infine il governo «non è riuscito a sviluppare una strategia di sicurezza nazionale» per il dopo. Insomma colpe americane ma anche degli afghani.

Il rapporto sembra però non ricordare che Trump aveva concordato una riduzione iniziale delle forze statunitensi da 13mila a 8.600 entro luglio 2020 e che all’inizio dell’amministrazione Biden, gennaio 2021, c’erano ancora 2.500 soldati statunitensi in Afghanistan. La base di Bagram fu abbandonata solo a inizio luglio. La verità è che non si erano accorti dell’avanzata dei Talebani o l’avevano ignorata. Né si erano accorti, o avevano ignorato (e noi con loro), che la catena logistica non funzionava, gli stipendi erano ridotti o non pagati, armi e vettovaglie non arrivavano in periferia. Da che parte guardavamo?

La parte più interessante del rapporto è forse l’ammissione che agli Usa «mancava un vero e proprio metro di misura per lo sviluppo dell’Andsf e i parametri utilizzati dal Dipartimento della Difesa erano incoerenti e incapaci di misurarne capacità e competenze». Più che aver creato un collasso nel morale della truppa afghana, verrebbe da dire che non si sapeva che guerra si stava combattendo. Una miopia durata 20 anni.

SU UN’ALTRA VICENDA di questi giorni c’è invece un silenzio generale, ben spiegato da una posizione pubblica proprio del capo di Sigar, Jhon Sopko: «Possiamo inviare tutti i soldi nel mondo in Afghanistan, ma sarà una tragedia se quei soldi finiranno nelle mani del regime talebano o di altri cattivi attori piuttosto che degli afghani che ne hanno davvero bisogno».

L’affermazione riguarda gli oltre nove miliardi di dollari, proprietà della Banca centrale di Kabul, congelati in banche americane ed europee dove erano depositati: di questi, sette sono in America. La metà è stata stanziata a beneficio del popolo afghano ma è ancora negli Usa; l’altra metà è in un fondo fiduciario per la potenziale compensazione delle famiglie delle vittime dell’11 settembre.

Proprio mentre usciva il rapporto Sigar un gruppo di attivisti americani ha preso il tema di petto in una conferenza stampa mercoledì. Per Kelly Campbell, co-fondatrice di 11th September Families for Peaceful Tomorrows, «è chiaro che quel denaro appartiene agli afghani e la nostra organizzazione è delusa dal fatto che il tribunale ci abbia negato voce così che le uniche parole consentite alle famiglie dell’11 settembre sono quelle di coloro che cercano di sottrarre denaro agli afghani».

«Il popolo afghano ha istituito una banca centrale indipendente per gestire i soldi afghani, regolare i prezzi, il commercio, contenere l’inflazione – spiega Shah Mehrabi, membro del Consiglio della Banca centrale d’Afghanistan – Potremmo assistere a un collasso totale del sistema finanziario: è essenziale iniettare liquidità nel Paese per stabilizzarne l’economia».

MASUDA SULTAN, afghana-americana del gruppo statunitense Unfreeze Afghanistan, è appena tornata dal Paese asiatico: «Ho visto gente con lo stomaco dolorante per la fame: 9 afghani su 10 hanno fame e nove milioni sono a forte rischio. Come attivista sto con le donne afghane ma come possiamo aiutarle levando loro i soldi? Non possono andare a scuola, ma una madre mi ha detto che non ci manda nemmeno i maschi perché non ha i soldi per i quaderni. E se mai le donne potranno avere uno stipendio, non ci sono i soldi per pagarlo».

E chi prova dall’Italia a mandar soldi a Kabul – denuncia la onlus Omnes oltre i confini – si vede bloccare il bonifico dal sistema finanziario europeo.

* Fonte/autore: Emanuele Giordana, il manifesto



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