La guerra e le armi. Il dilemma del secolo per l’Europa

by Alberto Negri * | 14 Aprile 2022 10:24

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 Il Pentagono ieri ha ospitato i vertici delle otto maggiori aziende di armi statunitensi per valutare la capacità industriale di soddisfare il fabbisogno di armamenti dell’Ucraina

 

È lecito chiedersi dove stiamo andando a finire? Dovremmo domandarlo a Putin, che ha iniziato questa insensata e ingiustificata aggressione dell’Ucraina condotta come una guerra di annientamento.

Che rischia di far sprofondare un continente. Dovremmo chiederlo anche a Zelensky – che un giorno molla uno schiaffo al presidente tedesco e un altro al papa – fino a che punto è pronto a spingersi per sacrificare se stesso e l’Ucraina. Perché dei negoziati Kiev-Mosca sappiamo poco o nulla e solo da fonti di parte. Eppure sono decisivi.

Ma l’unica risposta conosciuta che abbiamo al momento, quella degli Stati Uniti, è raggelante, speculare probabilmente alla violenza messa in campo da Mosca contro la popolazione civile. E viene fuori da un vertice tra i politici e il complesso militar-industriale, dove Hollywood rappresenta la sezione intrattenimento, come diceva Frank Zappa.

Il Pentagono ieri ha ospitato i vertici delle otto maggiori aziende di armi statunitensi per valutare la capacità industriale di soddisfare il fabbisogno di armamenti dell’Ucraina: la riunione è stata convocata per esaminare «il caso in cui la guerra si protragga per anni», ci informa la Reuters. Come per altro aveva già detto il segretario della Nato Stoltenberg, una sorta di ventriloquo di Washington. E così, se la guerra deve «protrarsi per anni» ieri Biden ha annunciato lo stanziamento di altri 800milioni di dollari in armi per Kiev – siamo a un totale di 2,4 miliardi di dollari in armi dagli Stati uniti.

Eppure qui, al centro dell’Europa, la guerra durava già da otto anni, con una fase iniziata nel 2014 che ha portato all’annessione russa della Crimea e ha visto contrapporsi nell’Ucraina orientale le forze di Kiev e le milizie separatiste del Donbass, provocando oltre 14mila morti. La rivolta di Maidan aveva portato alla cacciata del presidente Yanukovich e a una revisione completa del sistema politico dell’Ucraina. Venne annunciata anche una legge che avrebbe impedito l’utilizzo della lingua russa che provocò disordini nel sud-est dell’Ucraina tra manifestanti a favore e contro tale legge.

All’epoca rarissime furono le analisi circa la discriminazione e le norme internazionali in materia di tutela delle minoranze. L’Unione Europea non si soffermò in nessun modo su questi aspetti e non ne conseguì nessuna valutazione sulla necessaria tutela delle minoranze russe presenti in Ucraina. Tra settembre 2014 e febbraio 2015, Russia, Ucraina, Francia e Germania firmarono diverse versioni dei cosiddetti accordi di Minsk che però non furono mai attuati.

Con il fallimento di quegli accordi l’Europa è uscita di scena. Gli Usa di Obama avevano delegato la diplomazia agli europei e si erano tenuti fuori dai negoziati, visti come una legittimazione dell’annessione di Putin della Crimea. La posizione americana sul ruolo dell’Unione fu allora sintetizzata dalla celebre invettiva del segretario di Stato aggiunto, Victoria Nuland, «Fuck the Eu», letteralmente «l’Unione europea si fotta», scappata nel gennaio 2014 durante una telefonata con l’ambasciatore americano a Kiev, Geoffrey Pyatt, in cui discuteva la possibilità di un accordo tra il governo ucraino di Yanukovich e l’opposizione.

Il disinteresse americano alle soluzioni diplomatiche si è poi riflesso nelle argomentazioni (e nelle bugie) di Putin.  Quando nell’autunno scorso i russi hanno cominciato ad ammassare truppe ed equipaggiamenti militari al confine ucraino, hanno sottoposto agli Stati Uniti una lista di «proposte», una sorta di ultimatum, tra cui lo stop all’espansione della Nato, all’arretramento del suo schieramento e l’inizio di un negoziato per una nuova architettura di sicurezza.

La risposta è stata gelida: la classe politica americana ha ritenuto irricevibili le richieste di Mosca e la ha paragonate alle concessioni del premier britannico Chamberlain a Hitler. All’amo della diplomazia sulla questione ucraina hanno abboccato soltanto i leader europei. Sia i russi che gli americani non aspettavano altro, gli uni per iniziare un’invasione che li ha portati a occupare altri territori ucraini, gli Usa per allungare una guerra per procura e logorare Mosca, alleata della Cina, sul campo di battaglia continentale.

Il risultato è che ora l’Europa è stata inchiodata al dilemma geopolitico del secolo e forse della nostra stessa sopravvivenza: fare la guerra a Mosca senza entrare in guerra.

Ma il tutto si regge su un equilibrio sottilissimo e il filo lo tengono da una parte Putin e dall’altro gli Usa e Zelensky. Basti pensare a una possibile «provocazione» sulla questione delle armi chimiche. Chi giudicherà un’eventuale «reazione proporzionata» se saranno usate? Certamente non gli europei. Gli Usa non solo tengono in vita Kiev e possono far balenare un giorno anche una controffensiva.

Ma con gli stessi fili con cui muovono la fanteria ucraina muovono anche l’Europa: un successo indubbiamente dopo il fiasco clamoroso dell’Afghanistan. E indirizzano anche la narrativa del conflitto. Macron evita di usare la parola genocidio, utilizzata invece dal presidente Usa Biden, in riferimento all’Ucraina. Sa bene, come scriveva Kissinger sul Washington Post nel 2016, che «la demonizzazione di Putin non è una politica ma un alibi per continuare la guerra».

* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto[1]

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