Chomsky sulla linea rossa del conflitto
LA PACE MANCATA. Linee rosse ben chiare a Chomsky ma non troppo ai commentatori occidentali sui nostri giornali: nessuna adesione alla Nato per Georgia e Ucraina, nel cuore geo-strategico della Russia
Cosa è stato lo sappiamo, cosa accadrà nel dopoguerra possiamo solamente immaginarlo. Perché la guerra altro non è che una pace mancata. E forse avremmo evitato il massacro.
Se Kiev e Mosca – con Washington di mezzo a volere evitare seriamente un conflitto- avessero intavolato prima de lle trattative. Ora come europei paghiamo invece il prezzo di non aver regolato sull’onda dell’89 (crollo del Muro di Berlino) e del ’91 (fine dell’Urss) i rapporti con Mosca.
Gli occidentali, Stati Uniti in testa, avrebbero potuto e dovuto capire allora che prima o poi il fantasma della Russia nazionalista, alle prese con la nostalgia imperiale (Novorossija), si sarebbe di nuovo aggirato per l’Europa.
Ce lo ricorda anche il grande linguista Noam Chomsky, di origini ucraine, in un’intervista ieri sul Corriere della Sera, in buona parte equivocata nel titolo perché – pur definendo «eroica» la resistenza ucraina e indicando in questo l’elemento che la fa simile alla nostra Resistenza – nella sostanza infastidisce assai la narrativa predominante di questo conflitto.
«Ci sono due modi – dice Chomsky – per determinare cosa ha in mente Putin. Uno è speculare sulla sua mente contorta. L’altro è ascoltare quello che dice da tempo. Per 30 anni il governo degli Usa è stato avvertito, in modo fermo e chiaro, che stava perseguendo un percorso pericoloso e inquietante respingendo le preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza e, in particolare, le sue esplicite linee rosse». Linee rosse ben chiare a Chomsky ma non troppo ai commentatori occidentali sui nostri giornali: nessuna adesione alla Nato per Georgia e Ucraina, nel cuore geo-strategico della Russia.
Gli avvertimenti erano arrivati dai diplomatici più rispettati – George Kennan, Henry Kissinger, l’ambasciatore Jack Matlock – e anche dai responsabili della Cia. Il segretario alla Difesa di Clinton, William Perry, ricorda Chomsky, andò vicino alle dimissioni in segno di protesta quando il presidente americano decise di violare la ferma e inequivocabile promessa del suo predecessore a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe allargata “di un pollice a est”, vale a dire a est della Germania. Oggi Clinton sull’ “Atlantic” tenta una maldestra giustificazione dicendo che temeva «l’ultranazionalismo russo», che per la verità ai tempi di Eltsin sembrava morto e sepolto.
Nel 2004 Putin affermava di non temere l’espansione della Nato ammonendo però che la marcia verso Est dell’alleanza militare «non migliorava la sicurezza internazionale». Non era un ultimatum ma la definizione di un “limes”. La Russia poteva accettare – come avvenne – l’allargamento della Nato agli ex Paesi del Patto di Varsavia e persino alla tre repubbliche baltiche ma non all’Ucraina e alla Georgia. L’Occidente però faceva orecchie da mercante e invece di rispettare la linea rossa di Mosca investì dozzine di milioni di dollari nella rivoluzione arancione di Kiev.
L’amministrazione Bush cercava di indorare la pillola spiegando che la Russia non doveva vedere il problema ucraino in termini di «sfere di influenza»: ma proprio di questo si trattava. Come se gli Usa fingessero di non avere le «loro» sfere di influenza.
Era prevedibile che la Russia appena si è sentita più forte reagisse in Georgia nel 2008 e in Ucraina nel 2014: risultato ora neppure il più ottimista considera reversibile l’annessione della Crimea.
In realtà non negoziando con la Russia invece di un ordine internazionale ispirato alle regole del diritto e alle cosiddette sfere di influenza si è tornati alla classica e devastante politica di potenza.
Allora Henry Kissinger aveva avvertito che se l’Ucraina voleva sopravvivere e prosperare «non doveva diventare l’avamposto di una parte contro l’altra ma fare da ponte tra le due». Era il 5 marzo 2014 in un articolo dell’ex segretario di stato comparso sul Washington Post. Amen.
* Fonte/autore: Alberto Negri, il manifesto
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