Diritti umani in Afghanistan, un quadro desolante
Intervista a Shaharzad Akbar, già a capo dell’Afghan Independent Human Rights Commission: «Omicidi extragiudiziali, detenzioni illegali, torture contro detenuti»
Quando abbiamo incontrato Shaharzad Akbar la prima volta era la fine del giugno 2021, a Kabul. I Talebani conquistavano distretti su distretti, i nostri interlocutori nella capitale afghana si dicevano più preoccupati del solito, la data per il ritiro dei soldati statunitensi dal Paese si avvicinava.
L’ufficio dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission (Aihrc), l’organismo presieduto da Shaharzad Akbar, non era ancora finito nelle mani dei Talebani, che avrebbero conquistato Kabul il 15 agosto. Protetto da alte mura, nell’ufficio lungo la Darulaman Road ricorreva un anno dall’uccisione di un membro dello staff.
Omicidio non rivendicato. Parte di una serie di attentati dagli autori ignoti che per mesi, in particolare dopo l’accordo di Doha del febbraio 2020 tra gli Usa e i Talebani, aveva colpito voci critiche, esponenti della società civile, giornalisti. E poi ordigni su minibus, triplici attentati alle uscite delle scuole, sempre dalla mano ignota. Shaharzad Akbar era preoccupata: «nessun processo di pace, c’è solo più violenza e qualsiasi scenario plausibile produrrà maggiori violazioni dei diritti umani», ci diceva.
Chiedeva tenacemente l’attenzione della comunità internazionale, l’invio di una missione dell’Onu sul campo, per monitorare la situazione e come deterrente. Poche settimane dopo, lascia il Paese.
L’abbiamo incontrata di nuovo a inizio marzo a Milano, nel corso di un’iniziativa promossa dal consigliere regionale di + Europa Michele Usuelli, promotore di un emendamento, approvato dalla Regione Lombardia, con cui vengono stanziati 100.000 euro per le attività dello Special Rapporteur sui diritti umani in Afghanistan voluto dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu lo scorso ottobre. A Milano è ripresa la nostra conversazione con Shaharzad Akbar.
Lo scorso giugno, nel suo ufficio, criticava la cultura dell’impunità, l’inerzia della comunità internazionale, ferma alle condanne retoriche della violenza contro i civili. Poche settimane dopo, i Talebani conquistano Kabul. Cosa le è successo in quei giorni d’agosto?
Sabato 14 agosto 2021 c’è stato un incontro del gruppo dirigente dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission nel mio ufficio. Non sapevamo che sarebbe stato il nostro ultimo incontro, ma in quell’occasione suggerii a chiunque avesse già un visto di andare via, perché poi sarebbe potuto diventare impossibile.
Io ho lasciato il Paese con un volo commerciale la mattina del giorno dopo. Era il 15 agosto. Il volo di ritorno era previsto per il 22 agosto ma, da allora, con la mia famiglia siamo fuori dal Paese. Molti colleghi sono rimasti, però. L’idea prevalente era che ci fosse tempo almeno fino alla fine di settembre. Invece, è tutto crollato il 15 agosto.
Nel rapporto che il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha presentato a febbraio al Consiglio di sicurezza dell’Onu si parla di prove credibili di uccisioni, sparizioni forzate, abusi, difensori dei diritti umani sotto attacco, forte riduzione della libertà delle donne. Quale è lo stato dei diritti nel Paese?
Il quadro è devastante. C’è stata una crescente riduzione dello spazio civico. Sono stati registrati casi, che vanno opportunamente verificati, di omicidi extragiudiziali, detenzioni illegali e arbitrarie, torture contro detenuti, omicidi selettivi contro ex membri del vecchio governo e degli apparati di sicurezza. Più recentemente abbiamo assistito alla detenzione illegale e alla sparizione di giornalisti, donne che protestavano, ricercatori universitari. Sembra che i Talebani abbiano orientato diversamente il tiro: dai funzionari del vecchio regime ai civili che hanno posizioni critiche.
Per tutto il mese di febbraio ci siamo occupate delle ragazze che avevano protestato e che sono state detenute e intimidite. I Talebani prima hanno negato, poi hanno cercato di costruire una narrazione alternativa, sostenendo che le loro non fossero proteste autentiche. Infine, dietro pressione internazionale, le hanno liberate. Almeno in un caso, hanno requisito i passaporti di un’intera famiglia. Hanno poi costretto chi era coinvolta a promettere che non avrebbe parlato con i media e che non avrebbe protestato di nuovo.
Lei ha sostenuto che “non bisogna normalizzare l’apartheid di genere dei Talebani”. Sul “che fare” però ci si divide: c’è chi ritiene che interloquire con i Talebani porti a istituzionalizzarne il governo e la violenza e c’è chi invece, come la stessa Deborah Lyons, a capo della Missione dell’Onu a Kabul (Unama), ritiene che sia “indispensabile lavorare con le autorità di fatto per aiutare la popolazione”. Qual è la sua posizione?
Una discussione simile c’è stata a proposito del ritiro delle forze americane. Ci si è divisi tra chi diceva che andavano ritirate e chi no. Ma tra i due poli c’era un ampio spettro di opzioni e nessuno ha pensato a come andassero ritirate. La stessa “famiglia” dei diritti umani afghani è divisa. Io ritengo che, sfortunatamente, per quanto sia difficile farlo, una forma di interlocuzione sia necessaria. Non penso che sia possibile fare finta che non siano dove sono. Credo anzi che farlo renda le cose più difficili per la popolazione, che sia dannoso. Ma non credo che dialogo significhi riconoscimento.
C’è un’ampia gamma di strumenti a disposizione della comunità internazionale. La cosa più importante è il come dialogare. È importante per esempio che Unama sia diretta da una donna, che le questioni dei diritti umani siano una priorità, che vengano poste domande dirette e scomode. I Talebani negano tutto. Occorre metterli davanti alla contraddizione tra parole e azioni. L’interlocuzione ci deve essere, ma deve essere critica. Non bisogna normalizzare riconoscendo il governo dei Talebani e non bisogna normalizzare dicendo che la negazione dei diritti delle donne sia parte della cultura afghana o dell’Islam. Non è così.
Persa la guerra, la comunità internazionale usa l’ultima leva a disposizione, quella finanziaria. L’amministrazione Biden ha annunciato che i circa 7 miliardi di dollari della Banca centrale afghana “congelati” negli Usa verranno usati metà per l’aiuto umanitario nel Paese, metà per i famigliari delle vittime dell’11 settembre. Per qualcuno è una vendetta, una forma non dichiarata di guerra economica. Lei cosa ne pensa?
Nell’economia afghana va iniettata con urgenza liquidità, è vero. Ma gli asset della Banca centrale non vanno resi disponibili in modo incondizionato alle autorità di fatto. Dobbiamo finire di pensare che i Talebani siano dei bambini. Vanno messi di fronte alle conseguenze delle loro scelte, vanno trattati come interlocutori da cui si esigono risposte.
La prima domanda è: cosa significa essere l’unico Paese islamico al mondo che non consente alle bambine di andare a scuola? Perché una donna non può accedere a un servizio sanitario senza che sia accompagnata da un “custode” di sesso maschile? Oltre alla restituzione incondizionata di quei soldi, ci sono dunque molte altre soluzioni, parziali, vincolate, condizionate, che vanno esplorate.
Inoltre, non sono d’accordo con il presidente Biden quando pensa di destinare quei soldi a scopi umanitari. Per fortuna il messaggio è stato in parte compreso: il rappresentante speciale degli Usa, Thomas West, ha dichiarato che non verranno tutti usati per scopi umanitari. È successo grazie alla pressione di tutti quegli afghani che non sostengono i Talebani e che, pur essendo solidali con i famigliari delle vittime dell’11 settembre, ritengono che gli asset della Banca centrale non appartengano né al presidente Biden né ai Talebani, ma alla popolazione afghana.
A giugno ci diceva che “uno dei più grandi fallimenti della comunità internazionale ha a che fare con diritti e giustizia” e che in pochi mesi tutti si sarebbero dimenticati degli abusi e dei crimini commessi dalle truppe straniere. È ancora possibile ottenere giustizia?
Sono ancora convinta di quel che sostenevo allora. E sono sicura che ora ottenere giustizia per i crimini passati sia più complicato. Sono molto arrabbiata per la decisione della Corte penale internazionale di indagare soltanto sui crimini potenziali dei Talebani e dello Stato islamico in Afghanistan, escludendo invece i crimini potenziali delle forze armate americane. Si tratta di una decisione ingiusta per le vittime, anche perché per molte si trattava di un’ultima opportunità per vedere riconosciute le proprie richieste.
Ma la battaglia non è ancora finita. Anche dopo il 15 agosto abbiamo continuato, con le organizzazioni che seguono i diversi casi, a raccogliere materiali. Stiamo pensando a come proseguire, a come esercitare pressione affinché anche le forze armate straniere diano conto delle loro azioni.
* Fonte/autore: Giuliano Battiston, il manifesto
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