Le grandi potenze l’hanno paralizzata. Russia e la Cina se ne sono tenute ben lontane. Peggio gli Usa: non hanno aderito e con accordi bilaterali hanno «salvato» i loro militari
Sui diritti umani governa la doppia morale, che a volte si fa persino tripla. Era il 17 luglio del 1998 quando a Roma, in forma solenne, veniva firmato lo Statuto della Corte Penale Internazionale, di cui tanto si parla in questi giorni a proposito di Putin. Quella data concludeva un percorso lungo cinquant’anni durante il quale si era stratificato, consolidandosi, il diritto internazionale dei diritti umani.
Il 10 dicembre del 1948, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, veniva firmata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Quella Dichiarazione aveva l’ambizione di essere la Grundnorm messa a fondamento di un ordinamento giuridico internazionale che avrebbe dovuto porre limiti alla voracità belligena degli Stati. Da un lato gli Stati sovrani, anche quelli democratici, legittimavano sulla base della propria intangibile sovranità segregazioni razziali, torture di Stato, internamenti di massa, disuguaglianze giuridiche e sociali, guerre ai poveri, ai migranti e aggressioni ad altri paesi. Dall’altro si andava fortunatamente formando, seppur in modo frammentato, un ordinamento giuridico sovranazionale, con l’obiettivo di porre limiti all’infinita e violenta sovranità degli Stati.
Il passaggio dal simbolico al materiale nella protezione dei diritti umani si concretizzò nel 1998 quando venne aperto alla firma degli Stati lo Statuto istitutivo della Corte Penale Internazionale. Si ruppe il tabù dell’impunità dei criminali di guerra, dando vita a una Corte internazionale – che a differenza delle precedenti Corti ad hoc, nate dopo i fatti che dovevano giudicare, per i crimini di guerra in ex Jugoslavia e Rwanda – avrebbe potuto perseguire gli autori di crimini contro l’umanità, genocidio, tortura, crimini di guerra o di aggressione nel rispetto del principio di legalità.
Nel mentre stesso stava avvenendo un fatto giuridico epocale di rilevanza straordinaria, purtroppo già si assaporava un altro clima che pian piano avrebbe condotto alla rivincita degli Stati sovrani i quali non hanno inteso cedere irrimediabilmente i propri spazi alla giurisdizione universale dei diritti umani. Hanno temuto che la persecuzione penale sovra-nazionale delle massicce e più gravi violazioni dei diritti umani potesse mettere in discussione il fondamento belligeno dello Stato moderno ossia la sovranità. La sovranità è un problema. Lo affermava Kelsen. Lo scrivevano Freud ed Einstein in un meraviglioso carteggio contro la guerra del 1932. La Corte Penale Internazionale nasce pertanto a seguito di un Trattato internazionale. Vincola i Paesi che lo firmano e ratificano. Può operare solo per fatti commessi nei territori di paesi parte della Convenzione o nei casi di responsabilità dello Stato firmatario. L’Italia aderì alla Corte pochi anni dopo, anche se ci metterà più tempo per adeguare i propri codici.
Come detto, però, la giustizia penale è sempre stata considerata questione attinente alla sovranità intangibile degli Stati. Le grandi potenze negli anni successivi, parzialmente riuscendoci, hanno cercato di paralizzare la Corte Penale Internazionale. Lo hanno fatto esplicitamente, senza vergognarsene. La Russia e la Cina se ne sono tenute ben lontane. Myanmar, Egitto, Corea del Nord si sono sottratte a priori al giudizio non firmando lo Statuto. Tra i 123 Stati non c’è L’Ucraina che però ha firmato lo Statuto e chiesto l’attivazione della Corte per crimini commessi durante la guerra del 2014. Gli Stati Uniti non solo non hanno aderito ma hanno fatto qualcosa in più, palesemente destabilizzante: hanno promosso accordi bilaterali con alcuni Stati alleati per neutralizzarne l’impatto ed evitare conseguenze per i loro militari impegnati nelle missioni internazionali. L’amministrazione Trump giunse ad emettere un proprio ordine esecutivo – poi revocato da Biden – che prevedeva il divieto di ingresso negli Stati Uniti nonchè sanzioni economiche per il personale giudiziario della Corte.
Obiettivo polemico era in particolare la giudice del Gambia Fatou Bensouda che si era permessa di indagare sulle denunce di crimini commessi da soldati statunitensi in Afghanistan dal 2003. Le prove c’erano, la collaborazione giudiziaria americana no. Trattasi della stessa procuratrice che stava indagando sulle torture e i crimini commessi in Crimea. Se oggi la Corte è depotenziata nella sua azione di giustizia, lo si deve anche alle responsabilità di chi non ha voluto farla funzionare.
Fino ad oggi la Corte penale internazionale si è occupata di trenta casi e ha emesso trentacinque ordini di arresto che hanno portato alla detenzione di diciassette persone. Tra i tredici latitanti, dal 2009, vi è Omar Hassan Ahmad Al Bashir, per decenni presidente e dittatore del Sudan. e ancora in attesa di essere consegnato dalle autorità sudanesi.
Si chiama “Pacific solution” e più che alla pace rimanda al nome dell’oceano. È il programma, varato dal governo australiano nel 2001 e poi riproposto varie volte, per lo spostamento forzoso (si potrebbe anche dire deportazione) degli immigrati irregolari dall’Australia ad alcune isole/Stato della Micronesia, tra cui la repubblica di Nauru, la nazione più piccola del mondo. Anche ad altre destinazioni giungono i migranti respinti: Papua Nuova Guinea, Christmas Island, Manus Island. Stazioni sulla via del rimpatrio.
Centinaia di persone alla manifestazione serale dei sindacati e associazioni. «L’omicidio di Alika non si deve dimenticare». Sabato nuovo corteo. Ci sarà il Comitato 29 Luglio, nato il giorno dopo l’omicidio, e la comunità nigeriana