Pandemia. Le lezioni non apprese negli ultimi anni
Virus. Quello pandemico non è un accettabile nuovo statuto del mondo, ma il frutto di un epocale fallimento. La grave disuguaglianza vaccinale del 2021 non verrà sanata nel 2022 se chi governa sarà sensibile alle logiche delle multinazionali del farmaco e indifferente al diritto alla salute
Tre anni fa, in questi giorni, non avevamo ancora contezza del grande spaventoso evento che avrebbe bruscamente interrotto le cinetiche della globalizzazione e segnato la storia con uno strascico inenarrabile non solo di natura sanitaria, ma con effetti dirompenti anche nella sfera psicologico-esistenziale, sociale, economica. Una Cernobyl nel campo della salute, è stato definito. Sono avvenute talmente tante cose, in questi due anni sul fil di lama. Alcune positive, oltre ogni attesa, come il fulmineo sviluppo di vaccini e – più recentemente – di nuove terapie contro il Covid.
Mai si era visto uno sforzo scientifico di questa portata: 23 diversi vaccini approvati in un anno nel mondo e centinaia in fase di sviluppo. Si è calcolato che questa incredibile svolta abbia salvato la vita di 750.000 persone in Europa e negli Usa soltanto. Molte più cose sono andate male però. Molto male. Il Covid ha definito il 2021, un anno che passerà alla storia per le numerose commissioni, panel, summit che, almeno a parole, hanno inteso fare tesoro delle lezioni di questa pandemia, così da non ritrovarsi nella stessa situazione la prossima volta – perché di sicuro ci saranno prossime volte.
NUOVE COMMISSIONI si profilano all’orizzonte: la comunità internazionale infatti ha deciso – in una recente assemblea ad hoc dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – di imbarcarsi nel negoziato di un nuovo trattato pandemico. Quasi che quello pandemico fosse un accettabile nuovo statuto del mondo, la cifra sgraziata di un nuovo ordine delle cose, e non il frutto di un epocale fallimento di visione e di governance su scala mondiale. Ma alla vigilia del terzo anno di Covid-19 ci sono lezioni importanti da condividere.
LA PRIMA È CHE AGIRE subito è fondamentale, anche a costo di esagerare. Tra gennaio e febbraio 2020, per ragioni inspiegabili, il mondo non comprese che il virus sconosciuto scoppiato a Wuhan non sarebbe rimasto confinato in Cina. Bastarono poche settimane per far tracimare il nuovo patogeno ampiamente annunciato in altri paesi. È vero che in precedenza altri coronavirus, come SARS nel 2003 e MERS nel 2012, non avevano scatenato pandemie. E’ vero pure che le autorità sanitarie pagano a caro prezzo l’annuncio di allarmi per emergenze che poi non si rivelano tali; l’Oms fu letteralmente messa alla berlina dal Parlamento europeo nel 2009 per aver dichiarato la pandemia da influenza H1N1, evento dagli effetti non particolarmente gravi. Tutto il mondo sa che il principio guida di ogni risposta all’emergenza sanitaria è prepararsi al peggio, con adeguati investimenti e formazione del personale. Ma avviene raramente. La scelta, sperimentata a più riprese in due anni, di attendere che l’evoluzione del virus si manifesti appieno prima di assumere le misure necessarie ad alterarne la traiettoria presuppone la decisione di rendere il virus molto più pericoloso, e di aprire il varco alla pandemia.
LA SECONDA È CHE LA POLITICA continua ad avere il sopravvento sulla salute pubblica. In due anni di pandemia ne abbiamo viste di tutti i colori. Quanti leader politici hanno messo a repentaglio la vita dei loro cittadini, strumentalizzando la crisi, sminuendola o infilando bugie a raffica, solo perché la verità su COVID-19 avrebbe potuto ledere i loro destini politici? In Europa, capi di governo hanno ritenuto la pandemia l’occasione per una bonifica sociale nazionale vantaggiosa per le casse dello Stato. In molte parti del mondo, le misure di emergenza sono servite agli autocrati di turno per «fare pulizia» liberandosi di avversari politici, attivisti e giornalisti, ovvero per imporre regimi di sgraziata (in)sicurezza. In Brasile il negazionista presidente Bolsonaro, emulando lo scriteriato Trump, ha concesso al virus di scorrazzare indisturbato in un paese disuguale e con strutture sanitarie insufficienti ai bisogni della popolazione.
COME SE NON BASTASSE, ha disarcionato tre ministri della salute e abbandonato al proprio destino intere comunità indigene nelle regioni amazzoniche. Ci sarà un giudice a Brasilia o all’Aja in grado di impugnare i crimini del presidente il quale, incurante dei 600.000 morti, punta a farsi rieleggere il prossimo ottobre? Quello che sappiamo con certezza scientifica è che se il virus fosse scoppiato negli Stati Uniti invece che a Wuhan le conseguenze sarebbero state assai peggiori, checché ne dica la foga anticinese di Federico Rampini. Nonostante 824.000 morti, i programmi vaccinali negli Usa restano avvolti da una spregiudicata fuorvianza ideologica e anche portare la mascherina identifica politicamente, in una polarizzazione che toglie respiro più del virus.
NELLA FASE ESTREMA e forse terminale del capitalismo finanziario dominata dalla «ricerca ossessiva di sempre nuovi campi della vita sociale, dell’esistenza umana e della natura da trasformare il più rapidamente possibile in denaro», per dirla con Luciano Gallino, il cinismo geopolitico la fa da padrone sulle ragioni della salute globale. La comunità internazionale si rassegna alle nuove varianti pur di non cedere sulla vexata quaestio della sospensione dei diritti di proprietà intellettuale in tempo di emergenza. Abbiamo perso un anno, e la storia ci giudicherà severamente. La disuguaglianza vaccinale che ha infangato il 2021 non verrà sanata nel 2022 se un piccolo nucleo di governi continueranno a dimostrarsi sensibile alle ragioni delle multinazionali del farmaco e indifferenti al diritto alla salute. Se non cambiamo strada, non c’è trattato pandemico che tenga.
* Fonte: Nicoletta Dentico, il manifesto
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