Rifugiati. Dall’Afghanistan alla val di Susa, il lungo e pericoloso viaggio per la libertà

Rifugiati. Dall’Afghanistan alla val di Susa, il lungo e pericoloso viaggio per la libertà

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Il racconto. Dall’Afghanistan all’Europa. Il lungo e tormentato viaggio dei profughi per cercare di attraversare la frontiera Italo-Francese

 

Attraversare il confine tra l’Italia e la Francia non gli sembra una grande impresa, a confronto di quello che ha già passato. Di sicuro, però, è più facile per gli sciatori europei che gli sfrecciano accanto, senza badare a lui e al suo compagno di strada, incuranti dei binocoli della polizia puntati verso i boschi. «Qui funziona così: qualcuno scende felice – commenta Ali Rezaie –, qualcun altro, invece, sale triste».

ALI REZAIE NON AVREBBE dovuto trovarsi con un suo compagno afghano su uno dei tanti sentieri invisibili nella neve alta che, a pochi passi dalle piste da sci, di giorno e di notte i migranti battono per attraversare le Alpi al confine tra l’Italia e la Francia. Succede a Clavière, ultimo comune italiano a una manciata di metri dal cartello blu con la scritta “France” circondata dalle stelle dell’Unione, la frontiera stridente di un’area Schengen accessibile ad alcuni e blindata per altri, che pure percorrono la stessa strada. Per Ali, afghano di Herat che fino a quest’estate lavorava per un’organizzazione internazionale, era stato riservato un posto su uno dei voli che da Kabul portavano in Europa chi aveva collaborato con gli stranieri. Ma gli attacchi suicidi e le sparatorie che il 27 agosto hanno fatto decine di vittime hanno compromesso anche la sua via più sicura per mettersi in salvo. E così è stato costretto a incamminarsi per un viaggio di migliaia di chilometri, quasi tutto a piedi.

PIÙ DI TRE MESI DOPO Rezaie, 27 anni, è arrivato a Oulx, un comune dell’Alta Val di Susa a 79 chilometri da Torino, dove lo abbiamo incontrato insieme ai giornalisti di AP. Prima di tentare l’attraversamento dei passi alpini, si è fermato al Rifugio Massi, una struttura che dal 2018 offre ospitalità ai migranti in transito verso altri paesi europei, Germania in cima.

A DUE PASSI DALLA STAZIONE dei treni, il Rifugio Massi può accogliere 42 persone, fino a ottanta nei momenti di maggiore emergenza. Gestito dagli operatori della onlus Talità Kum, fondata da don Luigi Chiampo, in stretta collaborazione con la Croce Rossa Italiana e l’associazione Rainbow for Africa, il rifugio è il punto di riferimento per i migranti che provano a passare il confine a Clavière. Per arrivarci prendono il pullman da Oulx fino in paese oppure per Cesana Torinese, sette chilometri più in basso, da dove salgono a piedi sulla statale prima di disperdersi nei boschi. Se fino al 2019 quasi il 90 per cento delle persone in transito era composto da africani, oggi la maggioranza sono iraniani, siriani, iracheni e soprattutto afghani, alcuni fuggiti come Ali Rezaie dopo il ritorno dei talebani e molti altri partiti più di un anno fa, per anticipare quello che vedevano come l’unico esito sicuro di questa guerra.

DA INIZIO ANNO, raccontano al rifugio, da Oulx sono passati circa 12mila migranti. Non c’è ancora però l’esodo di massa che molti in Europa stanno aspettando, anche se i numeri sono in aumento. Basta provare a percorrere qualche metro delle strade possibili verso la Francia per capire perché. Appena si lascia la strada e si prova a virare verso il confine seguendo il Gps, le gambe affondano nella neve fino al ginocchio. Fa freddo, a Clavière, il vento gelido sferza le parti di viso scoperte anche se c’è il sole, la batteria del telefono si scarica in fretta. Solo i più motivati e i più attrezzati riescono ad affrontare le sei, sette o dieci ore di cammino, senza più mappa e con la paura di essere intercettati dalla polizia francese che pattuglia i promontori. Seguirli è quasi impossibile: appena puntano ai valichi, le loro gambe si muovono molto più veloci delle tue, anche se sei allenato: corrono, cadono nella neve, ma hanno un obiettivo e in poco tempo lasciano te, che non devi salvarti, indietro.

REZAIE È FRA I POCHI RIUSCITI a passare il confine al primo colpo. La gran parte dei migranti viene respinta e riaccompagnata al Rifugio Massi, da dove poi ripartono alla volta di Briançon, cittadina francese a 14 chilometri da Clavière. Quasi tutti, prima o dopo, ce la fanno. «Il nostro obiettivo principale è che nessuno muoia tra le montagne – spiega Luca Guglielmetti, uno dei responsabili del rifugio –. È la regola non scritta che da sempre guida i primi soccorsi sia qui sia dalla parte francese. Gli afghani sono molto sicuri di sé, perché sono abituati alle cime. Solo che questo non aiuta, perché li espone a un pericolo maggiore».

A OULX I VOLONTARI HANNO indicato i punti pericolosi da evitare lungo il percorso su cartine appese alle pareti del cortile del rifugio. A chi parte vengono dati scarponi, giacche, pantaloni da neve, guanti e berretti. Chi riesce ad arrivare a Briançon restituisce poi l’attrezzatura ai volontari del centro di accoglienza che opera in tandem con il Rifugio Massi, le Terrasses Solidaires, i quali la riportano a Oulx per i prossimi in partenza. Nessuno arriva ai piedi delle Alpi preparato, specie gli africani: sono smarriti davanti alle temperature invernali, la neve è un ostacolo per molti insormontabile. E tanti tornano indietro quando vengono respinti, perché il pensiero di rifare quella salita al gelo è insopportabile. Nemmeno Ali Rezaie è sicuro di come muoversi, partito in fretta con pochi soldi per sfuggire i talebani che, racconta, lo avrebbero ucciso di sicuro se l’avessero incontrato. Il suo percorso è stato quello di tanti altri connazionali: a piedi in Iran e in Turchia, poi una barca e altri 25 giorni di cammino in Grecia. Da lì, il barcone fino a Bari, i treni a Milano e a Torino.

«NON ABBIAMO SCELTA, io non sarei voluto partire. Ma ho già preso così tanti rischi in passato, che ormai riprovare non mi costa nulla» dice Abdul Almazai. È un ragazzo di 26 anni di Kunar (Afghanistan), partito sei anni fa e respinto più volte alla frontiera francese. Sul cellulare ha una foto di sé con la parte destra del busto completamente ingessata: «Sono le botte che mi ha dato la polizia bosniaca quando mi ha scoperto al confine, dopo che avevo passato quindici ore immerso nel fiume per riuscire a passare». Non ha un accenno di rancore nello sguardo, Abdul, solo la tristezza dolce degli apolidi che continuano a sperare di trovare una casa da qualche parte.

Guglielmetti lo chiama «lo spirito fatalista» dei migranti che passano da Oulx: «Hanno una forza che li spinge al di là di ogni evento». È la stessa spinta che anima anche un sedicenne di Kabul, diretto dalla madre in Germania. Alla fermata del pullman di Oulx, dove tenterà di arrivare a Clavière e lì chiedere di essere accolto in qualità di minore come prevede la legge europea, è solo e senza bagagli. A chiedergli se ha paura di essere respinto, sorride: «Non è questa la frontiera di cui preoccuparsi davvero».

Nel piazzale dei pullman c’è la strana atmosfera sospesa prima delle partenze. Tra chi aspetta il bus c’è anche Said Saeeidi, compagno di strada di Ali Rezaie. Lui è reduce da oltre quindici respingimenti al confine croato, sul corpo porta le cicatrici dovute a un attacco bomba suicida per cui ha deciso di andarsene dall’Afghanistan sei anni fa: «Lo sanno tutti, il mio non è mai stato un paese sicuro», dice. Per questo l’idea di scalare una montagna al buio con dieci gradi sotto zero non fa paura a chi è fuggito. «Il peggio è passato – continua Said, gli occhi color mandorla che risplendono per il riflesso della neve –, e se Dio vuole, Inshallah, arriveremo dove vogliamo arrivare».

PER TANTI QUEL DOVE è la Germania, il paese europeo ritenuto più ricco di opportunità per chi deve ricominciare da zero, ancora sulla scia della storica decisione di Angela Merkel di accogliere un milione di profughi siriani nel 2015. Vuole arrivarci Abdul, che vorrebbe studiare, laurearsi e trovare un lavoro che gli permetta di aiutare chi in futuro dovrà affrontare i Balcani come lui. Vogliono arrivarci Ali e Said, per lasciarsi l’Afghanistan alle spalle, perché sanno che non potranno tornare, e per ritrovare un senso in una vita diversa in cui, magari, ci sarà spazio anche per le loro famiglie, bloccate tra Iran e Turchia.

PRIMA PERÒ CI SONO LE ALPI italo-francesi, la linea di confine aspra e spezzettata dove migliaia di persone diventano ogni giorno invisibili, sotto gli occhi di tutti. Li rendono tali i turisti distratti che non mettono a fuoco quel passaggio rapido e silenzioso di chi cerca di far sparire le proprie tracce lì dove l’Europa chiude le sue porte in sordina, lasciandole aperte a chi ai piedi ha gli attacchi degli sci invece di scarponi da 19 euro della Decathlon usati più volte da individui diversi. «La gente non si accorge dei migranti tranne quando vede i furgoni della Croce Rossa che li riportano a valle o si siede accanto sul treno» commenta Bruna Consolini, sindaca di Bussoleno, comune a mezz’ora di auto da Oulx dove è stato allestito polo logistico in una vecchia scuola per accogliere i migranti quando il Rifugio Massi è pieno. «Pochi arrivano direttamente da noi, la Val di Susa è solo un transito per chi sta cercando di ricominciare una nuova vita» dice Consolini.

SONO LE 20.15 DI DOMENICA quando squilla il telefono. «We are in a safe house, in France, I drink tea now». È Ali, lui e Said ce l’hanno fatta. La chiamata arriva il giorno dopo, appena prima di salire sul treno per Parigi: «Ci hanno lasciato andare. Mi sento bene, molto bene. Sono libero ora, sarà tutto più facile». Forse la discesa di quei «felici pochi» stavolta può davvero iniziare, anche per lui.

* Fonte: Laura Fasani, il manifesto



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