Pandemia. Il business dello stato d’emergenza con appalti e procedure accelerate

by Andrea Capocci * | 16 Dicembre 2021 9:11

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Dai farmaci antivirali alle mascherine. Utilizzando procedure da guerra batteriologica, finora sono stati mobilitati 20 miliardi di euro. La struttura commissariale è quella che ha distribuito più fondi. Come in ogni emergenza italiana, si aprono varchi per interessi illeciti

Il ministero della salute ha autorizzato l’acquisto e la somministrazione di due farmaci antivirali anti-Covid, il paxlovid della Pfizer e il molnupiravir della Merck. Il farmaco Pfizer sarebbe in grado di diminuire il rischio di ricovero dell’89%, quello Merck del 30%. Ma c’è un piccolo problema: i due farmaci, per quanto promettenti, non sono stati approvati né dall’Agenzia europea del farmaco (Ema) né dalla nostra Aifa, e i dati disponibili provengono dai comunicati stampa delle aziende. Il prezzo di questi farmaci si aggira intorno ai 700 euro a trattamento: si può autorizzare una spesa farmaceutica così importante, con così pochi dati a disposizione?

La risposta è sì e il grimaldello si chiama “emergenza”. Nei soli due articoli del decreto, l’emergenza pandemica è citata ben 13 volte. Inoltre, l’acquisto e la somministrazione dei farmaci sono affidati al Commissario straordinario, altra figura legata a doppio filo allo stato di emergenza appena prorogata al 31 marzo. Tutto è reso possibile grazie a una legge del 2006 che permette di bypassare le autorizzazioni sanitarie in caso di «dispersione di agenti patogeni, tossine, agenti chimici o radiazioni nucleari». Procedure da guerra batteriologica già utilizzate per un acquisto molto discusso, quello degli anticorpi monoclonali anti-Covid. Anche allora senza l’ok dell’Ema.

Mentre in tanti lo associano alla “dittatura sanitaria” e agli elicotteri che inseguono i runner, lo stato di emergenza è servito soprattutto a un massiccio trasferimento di denaro pubblico con procedure più «snelle», cioè con meno controlli. Secondo l’Osservatorio Covid-19 della fondazione OpenPolis, che monitora i bandi dell’amministrazione pubblica per acquisto di beni e servizi legati all’emergenza pandemica, dall’inizio dello stato di emergenza sono stati banditi appalti per circa 20 miliardi di euro, praticamente una finanziaria.

L’87% di questi appalti (circa 17 miliardi di euro) ha seguito procedimenti accelerati resi possibili dallo stato di emergenza e che lasciano notevole margine discrezionale ai centri di spesa, come la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara (quasi il 70% del totale) e gli affidamenti diretti. La maggior parte degli appalti sono stati banditi dalla struttura commissariale guidata prima da Domenico Arcuri e poi da Francesco Figliuolo, che ha gestito oltre il 50% del valore degli appalti. A seguire le regioni, con Lombardia, Veneto e Toscana davanti a tutte le altre.

Con questi soldi sono stati acquistati beni e servizi necessari per la risposta pandemica. Le principali voci di spesa sono quelle delle mascherine (8,8 miliardi di euro), delle vaccinazioni (3,4 miliardi) e dei test diagnostici (3,1 miliardi).

Se la rapidità di esecuzioni di questi appalti è stata funzionale alla risposta immediata alla pandemia, lo snellimento delle procedure rischia di aprire zone grigie in cui possono infilarsi interessi affaristici e persino criminali. I centri di spesa più coinvolti dall’emergenza, come la struttura commissariale e le regioni, sono anche quelle più lambite dalle inchieste della magistratura. Nel mese di ottobre sono state sequestrati 800 milioni mascherine provenienti dalla Cina e acquistati durante la gestione Arcuri, ora indagato per abuso d’ufficio insieme a imprenditori e presunti mediatori di varia estrazione, come il giornalista Rai Mario Benotti. Sempre per il sospetto di malversazioni nelle forniture di mascherine, la magistratura ha indagato anche esponenti della Lega vecchia e nuova, come l’ex-presidente della camera Irene Pivetti e Gianluca Pini, fedelissimo del ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti. Per non parlare della fornitura dei camici alla regione Lombardia da parte dell’azienda del cognato del governatore leghista Attilio Fontana, per il quale pochi giorni fa la procura ha chiesto il rinvio a giudizio.

Anche per spendere i fondi del Pnrr si ricorrerà probabilmente a procedure speciali, per evitare il rischio che gli impegni di spesa con la Commissione europea non siano mantenuti a causa della burocrazia. Ma questo aprirà fatalmente dei varchi che potrebbero essere sfruttati dalla criminalità organizzata. Il pericolo è già segnalato nei report dell’Organismo permanente di monitoraggio ed analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso costituito presso la Direzione centrale della polizia criminale. Nei documenti degli inquirenti si delineano «i rischi potenziali, individuando i settori economici da sempre d’interesse delle mafie e le nuove aree connesse alle filiere produttive o ai servizi legati alla pandemia (cosiddetta Covid economy)». E non è un mistero che in molti aree del paese siano state proprio le mafie a fornire – a modo loro – i mezzi per superare la crisi economica determinata dal Covid.

* Fonte: Andrea Capocci,  il manifesto[1]

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