Egitto. Altri 5 anni di carcere per il dissidente Alaa Abd el-Fattah

Egitto. Altri 5 anni di carcere per il dissidente Alaa Abd el-Fattah

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Egitto. Insieme all’attivista volto di piazza Tahrir, condannati anche il suo avvocato Mohamed Baqer e il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim. Tutti in prigione da settembre 2019, ma i due anni di detenzione cautelari non saranno scalati dalla pena

 

Il giudice della corte per lo stato di emergenza di New Cairo non è nemmeno uscito per leggere la sentenza, l’ha fatta gridare da un funzionario del tribunale: cinque anni di carcere per Alaa Abd el-Fattah, quattro a testa per Mohamed el-Baqer e per Mohamed “Oxygen” Ibrahim.

Il primo è il più noto attivista egiziano, anima di piazza Tahrir, informatico e pensatore gramsciano. Il secondo è il suo avvocato, arrestato in un’aula di giustizia mentre lo difendeva. Il terzo è un blogger. Per tutti le accuse sono le stesse: diffusione di notizie false e appartenenza a gruppo illegale che avrebbe tentato di sospendere la costituzione.

Due i fascicoli: il caso 1356 del 2019 era scaduto, da cui l’apertura del caso 1228 del 2021, lanciato per impedire il rilascio dei tre (arrestati nel settembre 2019) dopo i due anni di detenzione cautelare legali. Un trucco che, tra le altre cose, permette di non scalare i due anni già trascorsi dietro le sbarre dalla sentenza finale.

L’udienza di ieri era attesissima, temuta: non si immaginavano sconti né clemenza. Né tantomeno il rispetto degli standard di un processo equo: come denunciato da mesi, i legali dei tre imputati non hanno avuto accesso ai fascicoli della procura, rimanendo all’oscuro delle effettive accuse e delle eventuali prove, né hanno potuto incontrare i loro assistiti da maggio scorso. Insomma, impossibilitati a costruire una difesa.

Senza dimenticare che le accuse mosse ad Abd el-Fattah, Baqer e Ibrahim rientrano nello stato di emergenza, rimosso lo scorso settembre dal presidente al-Sisi. Poco importa: i casi aperti nel quadro dello stato di emergenza sono rimasti in piedi. Come una delle caratteristiche principe delle sentenze «emergenziali»: niente appello, solo la ratifica da parte del presidente.

Nessuno si aspetta una grazia. Basta vedere come il governo egiziano ha risposto a quello tedesco dopo la richiesta di Berlino di rispettare i diritti degli imputati (richiesta mossa dopo aver venduto al regime egiziano tre fregate della Thyssenkrupp e 16 batterie antiaeree prodotte di Diehl Defense, all’insaputa del Parlamento. L’efficacia del contiano «fare affari per essere influenti sulle scelte politiche di al-Sisi» non funziona nemmeno a Berlino).

Alla Germania, domenica, il ministero degli esteri egiziano ha detto di non impicciarsi: «Una palese e ingiustificata ingerenza negli affari interni egiziani – si legge nella nota – È sorprendente che il governo tedesco chieda al Cairo il rispetto della legge e allo stesso tempo voglia influenzare le decisioni della magistratura egiziana, che è ben nota per la sua indipendenza, imparzialità».

Il calvario di Alaa sembra senza fine: arrestato sotto Mubarak e poi sotto Morsi, è tornato in prigione nel 2013; condannato a cinque anni per partecipazione a manifestazione non autorizzata, era stato rilasciato nel marzo 2019. Libero a metà: doveva trascorrere ogni giorno, dalle 18 alle 6 in una stazione di polizia.

È stato di nuovo arrestato nel settembre 2019: «Sono stato incarcerato e condannato già in passato per la mia partecipazione alle proteste – ha detto ieri Abd el-Fattah durante l’ultima udienza, come ha riportato la sorella Mona Saif – Non sono mai stato in prigione per atti violenti. Ma almeno potevo passare qualche ora al sole. Ne sono stato privato negli ultimi due anni. Non riesco a capire nemmeno le cose più semplici: ad esempio, perché mi è vietato leggere».

Una quotidianità insopportabile che lo scorso settembre ha spinto Alaa sull’orlo del suicidio. «Il verdetto è un chiaro messaggio del governo di al-Sisi alla comunità internazionale – ha commentato Ahmed Mefreh, avvocato e direttore del Committee for Justice di Ginevra – Non ci sarà alcun reale cambiamento per la situazione dei diritti umani nel paese».

* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto

 

ph by Gigi Ibrahim from Cairo, Egypt, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons



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  1. Gianni Sartori
    Gianni Sartori 21 Dicembre, 2021, 16:25

    L’INFERNO DELLE CARCERI DI STERMINIO TURCHE: sono già cinque i prigionieri politici curdi morti in circostanze sospette in nemmeno dieci giorni
    Gianni Sartori
    Per ora è l’ultimo. Ma – si teme – non lo sarà a lungo.
    Condannato all’ergastolo, Vedat Çem Erkmen era rinchiuso nella prigione di tipo F di Tekirdağ.
    Le dinamiche della sua morte (stando alla versione ufficiale si sarebbe suicidato domenica 19 dicembre) risultano perlomeno sospette.
    Quando i suoi familiari, gli avvocati dell’Associazione per i diritti dell’uomo (IHD) e quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (ÖHD)si sono presentati alle porte del carcere sono stati informati che l’autopsia era già avvenuta in loro assenza.
    Un esponente della Commissione sulle prigioni di ÖHD, Gürkan Isteli, ha messo in rete le sue perplessità: “Cosa cercano di nascondere ? Siamo andati avanti e indietro per ore dalla prigione al palazzo di giustizia, all’ospedale.
    Ma tutte le nostre richieste di poter vedere il corpo venivano respinte. Solo dopo molte ore, quando finalmente siamo riusciti a entrare nell’ufficio del procuratore, abbiamo potuto identificarlo”.
    Da qualche giorno il prigioniero curdo era stato trasferito in una cella d’isolamento, senza plausibili ragioni. A meno che – è questo il timore che serpeggia tra gli avvocati e non solo nel caso di Vedat Erkmen – tali trasferimenti siano il preludio per l’eliminazione fisica del detenuto.
    Particolare inquietante, solo qualche giorno prima (il 17 dicembre) nel corso di una telefonata, il prigioniero aveva chiesto al fratello di presentare un reclamo contro l’amministrazione penitenziaria per i maltrattamenti subiti. Si profila quindi l’eventualità di una ritorsione dei guardiani nei suoi confronti.
    Come avviene quasi regolarmente nel caso dei detenuti curdi morti in carcere, il corpo di Erkmen non è stato consegnato alla famiglia (affinché potesse seppellirlo a Kars, la città natale), ma portato dalla polizia in un cimitero di Istanbul (Küçükçekmece) già nel primo mattino di lunedì 20 dicembre.
    Con quello di Erkmen siamo al quinto decesso sospetto di prigionieri politici curdi in meno di dieci giorni.
    Solo due giorni prima avevo scritto che “a costo di apparire cinico (ma in realtà disgustato, affranto per questo rosario infinito e ingiusto di morte…) e consapevole che sulla tragedia del popolo curdo l’ironia è fuori luogo, dopo la morte di Halil Güneş il 15 dicembre (successivo a quelli di Abdülrezzak Şuyur il 14 dicembre e di Garibe Gezer il 9 dicembre) non avevo potuto fare a meno di pensare che “Non c’è due senza tre”.
    Ma siccome non c’è limite al peggio, ora la lista si è ulteriormente allungata”.
    Infatti a distanza di un paio di giorni dalla morte di Halil Güneş l’ennesimo prigioniero politico curdo era deceduto il 18 dicembre in una maniera che anche i suoi familiari ritengono “sospetta”.
    Ilyas Demir (32 anni, condannato all’ergastolo) si trovava in una cella d’isolamento (dove, di fatto, i prigionieri sono completamente in balia dei loro carcerieri) della prigione di tipo T di Bolu. La famiglia non era nemmeno stata informata direttamente dalla direzione del carcere, ma soltanto dal muhatar (il rappresentante di quartiere che evidentemente era stato contattato dalle autorità). E senza che venisse fornita qualche spiegazione sulla cause dell’improvvisa morte.
    Madie Demir ha dichiarato che suo fratello, da quando venne arrestato nel 2013, era stato rinchiuso in varie prigioni, spesso in isolamento. Inoltre, nonostante patisse di gravi problemi psicologici, non era mai stato curato.
    Aggiungendo che “costringerlo in isolamento in tali condizioni è stato un crimine in quanto avrebbe dovuto trovarsi all’ospedale per venir curato”.
    Un passo indietro.
    Quando il 13 dicembre del 1980 il giovanissimo militante del Türkiye Devrimci Komünist Partisi (Partito Comunista Rivoluzionario della Turchia) Erdal Eren venne impiccato, la sua vera età (16 anni) venne falsificata dalle autorità turche per poterlo giustiziare.
    Il ragazzo era stato arrestato con altri militanti di sinistra durante una manifestazione e accusato della morte di un soldato.
    Colui che ne aveva patrocinato l’impiccagione ( e che non certo impropriamente venne definito il “Pinochet turco”), il generale golpista Kenan Evren, aveva così commentato: “Avremmo forse dovuto incarcerarlo e nutrirlo a vita invece di impiccarlo?”.
    Quasi con le stesse parole veniva commentata la morte – il 9 dicembre -nel carcere di Kocaeli della prigioniera politica curda Garibe Gezer (già torturata e violentata dai suoi guardiani).
    Alcuni media a favore di Erdogan si sono rallegrati per la sua morte scrivendo che ora “c’era una terrorista di meno da nutrire in carcere”.
    Di Garibe Gezer, morta il 9 dicembre,mi ero occupato circa due mesi fa denunciando le ignobili sevizie a cui veniva sottoposta.
    Torturata e violentata dai carcerieri, il suo è stato un autentico calvario.
    Alla fine gli aguzzini hanno completato l’opera di annientamento nei confronti di questa prigioniera politica rinchiusa nel carcere di massima sicurezza (di tipo F) di Kandira a Kocaeli.
    Secondo la versione fornita dall’amministrazione carceraria, la giovane curda – arrestata a Mardin ancora nel 2016 – si sarebbe“suicidata”.
    Numerose donne, esponenti delle Madri della Pace, del Movimento delle Donne Libere (TJA), dell’Associazione di aiuto alle famiglie dei prigionieri (TUHAY DER) e dell’HDP, si sono riunite davanti all’ospedale di Kocaeli per riavere il corpo della giovane vittima. Hanno poi portato a spalla la bara scandendo slogan contro la repressione nonostante la polizia intervenisse per impedirlo.
    Nella tarda serata del 10 dicembre è stata sepolta a Kerbora, la città dove era nata 28 anni fa.
    Ma la versione ufficiale sulla morte di Garibe Gezer non ha convinto Eren Keskin. In quanto avvocato e co-presidente dell’Associazione dei Diritti dell’Uomo (IHD) si è chiesta come la detenuta abbia potuto suicidarsi visto che si trovava in isolamento (per una sanzione disciplinare), sotto lo sguardo perenne delle telecamere.
    Nell’ottobre scorso, con una Iniziativa parlamentare delle donne del Partito Democratico dei popoli (HDP), veniva segnalato che Garibe era stata posta in isolamento per 22 giorni dopo il suo trasferimento – il 15 marzo – dalla prigione di Kayseri in quella di Kandira dove in queste ore ha perso la vita. Il 24 maggio, agenti penitenziari, sia uomini che donne, erano entrati nella sua cella per picchiarla. Si leggeva nel rapporto che “mentre le guardiane le tenevano le braccia bloccate, gli uomini la percuotevano sulla schiena.
    I suoi abiti venivano strappati, le venivano tolti i pantaloni per essere quindi trascinata per i capelli, seminuda, nell’area riservata ai detenuti maschi”.
    Scaraventata in una “cella imbottita completamente isolata e controllata 24 ore su 24”.
    E qui subiva “violenze sessuali da parte dei carcerieri”.
    A causa delle violenze subite, secondo il rapporto di HDP, la prigioniera avrebbe cercato di porre fine ai suoi giorni. Portata nell’infermeria del carcere, vi subiva altri maltrattamenti e non veniva curata.
    Messa in isolamento, il 7 giugno tentava di appiccare il fuoco alla sua cella e veniva gettata nuovamente in una cella imbottita. In una conversazione telefonica con la sorella era riuscita a informare i familiari che sarebbe stata posta ancora in isolamento e che nei suoi confronti venivano esercitate altre restrizioni disciplinari. Quanto alle lettere, alcune sono state censurate, altre mai spedite.
    Nonostante le sue proteste e denunce degli abusi subiti in carcere fossero note da tempo, nessuna inchiesta era mai stata avviata.
    Agli avvocati dell’Ufficio di aiuto giuridico contro la violenza sessuale e lo stupro, che si erano recati al carcere insieme a quelli dell’Associazione degli avvocati per la libertà (OHD), non veniva concessa la possibilità di assistere all’autopsia.
    Una vicenda quella di Garibe Gezer purtroppo analoga a tante altre.
    La sua famiglia in particolare ha pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione.
    Un fratello, Bilal, era stato ucciso nelle proteste che tra il 6 e l’8 ottobre2014 videro decine di migliaia di curdi scendere in strada da Diyarbakir a Vario e in una trentina di altre località, anche sul confine tra Suruc e Kobane. Assediando caserme e commissariati e incendiando alcuni edifici governativi in Bakur (Kurdistan del Nord sotto occupazione turca). Quella che sotto molti aspetti fu una vera e propria insurrezione derivava dalla richiesta di aprire un corridoio per portare soccorso a Kobane assediata dall’Isis. L’abbattimento di un largo tratto della frontiera consentì a molti curdi provenienti dalla Turchia di raggiungere i fratelli di Kobane. Da parte sua Erdogan ordinò il coprifuoco e schierò i carri armati. Le vittime accertate (quasi tutti curdi) furono oltre cinquanta, almeno 700 i feriti.
    Un altro fratello, Mehemet Emin Gezer, si era recato al commissariato di Dargeçit per poter recuperare il corpo di Bilal, ma era stato colpito dalla polizia delle operazioni speciali rimanendo paralizzato. Altri membri della famiglia erano poi stati ugualmente incarcerati.
    Come ho detto dopo Garibe altri quattro detenuti curdi (Abdülrezzak Şuyur, Halil Güneş, Ilyas Demir, Vedat Çem Erkmen) sono deceduti carcere.
    Arrestato nel 1993, Abdülrezzak Şuyur aveva 56 anni ed èmorto nella prigione di Sakran (nella provincia di Izmir) dove, nonostante fosse da mesi gravemente ammalato, sembra non sia stato curato. Due settimane fa aveva potuto incontrare i figli, ma in seguito di lui non si erano avute notizie. Invano un fratello si era recato al carcere per poterlo vedere. Così come erano rimaste lettera morta sia una richiesta di scarcerazione, vista la gravità della sua situazione, sia la richiesta di potersi curare in un ospedale esterno.
    In precedenza Abdülrezzak Şuyur era stato rinchiuso a Siirt e Antep.
    Halil Güneş, deceduto il 15 dicembre nella prigione di Diyarbakir, aveva 51 anni. Condannato all’ergastolo nel 1993, era da tempo gravemente ammalato.
    La questione della situazione sanitaria dei detenuti in Turchia (soprattutto della mancanza di cure adeguate) è da tempo all’ordine del giorno. In ottobre l’Associazione dei Diritti dell’Uomo in Turchia (IHD) aveva nuovamente chiesto il rilascio almeno di quelli ammalati più gravemente (in particolare di Adem Amaç, Atilla Coşkun e Eser Morsümbül).
    Richiesta comunque caduta nel vuoto nonostante siano ormai centinaia di prigionieri politici senza cure adeguate continuano a languire (un supplemento di pena) nelle carceri turche.
    Secondo IHD sarebbero 1.564 i prigionieri ammalati e per 591 di loro le situazione è estremamente grave. Ovviamente si tratta dei casi accertati, ma appare scontato che il numero reale sia ben più elevato.
    E per chi era già ammalato con la pandemia i rischi sono aumentati.
    Gianni Sartori

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