by Giuliano Battiston * | 31 Dicembre 2021 9:43
Talebanistan. 23 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare
«So che i miei figli dovrebbero andare a scuola, ma non abbiamo niente, né casa, né terra, né soldi. Devo mandarli ogni giorno per strada a raccogliere qualche spicciolo», racconta Mohammad Agha, 39 anni, fuori dalla tenda in cui si è trasferito da qualche mese a Jalalabad, nella provincia orientale di Nangarhar, dove la temperatura è più mite che nel resto dell’Afghanistan, alle prese con un rigido inverno.
«I COMMERCI si sono ridotti del 50 per cento. Prima qui era un continuo via vai di camion, ora ci sono pochi mezzi al giorno», nota Abdullah, responsabile a Mazar-e-Sharif, nella provincia settentrionale di Balkh, di un grande parcheggio per i camion provenienti dall’Asia centrale e dalle province settentrionali.
«Abbiamo tante competenze ma anche tante necessità. Per questo c’è bisogno dell’aiuto della comunità internazionale», conferma il ministro di fatto della Salute, il dottor Qalandar Abad, all’ospedale Mirwais di Kandahar, nel profondo sud del Paese, prima di una visita al reparto pediatrico in cui è accolta una parte di quel milione di bambini sotto i 5 anni che secondo l’Onu rischiano di morire per malnutrizione. «Non c’è più lavoro e ogni cosa, dal riso alla farina al pane alle uova, costa più di prima: me ne torno al villaggio dai miei, a Ghazni», racconta Yahya a Kabul.
«SONO COSTRETTA A VENDERE mia figlia più grande per far sopravvivere le altre tre», spiega Marziah, gli occhi bassi, nel suo appartamento di Ghazni, mentre poco più in là un funzionario dei Talebani accusa un attivista locale di aver fatto propaganda contro l’Emirato, per aver portato all’attenzione pubblica il caso della donna, poi risolto, provvisoriamente, grazie alla solidarietà di tanti e tante, fuori e dentro il Paese. Sono cinque dichiarazioni raccolte nel nostro ultimo viaggio in Afghanistan tra la fine di ottobre e la fine di novembre del 2021. Cinque tra tante. Sufficienti a rendere l’idea della profondissima crisi in corso.
UNA CRISI che ha radici lontane. Non nasce il 15 agosto, quando i Talebani conquistano Kabul, portando al collasso della Repubblica islamica e alla fuga del presidente Ashraf Ghani, che proprio ieri è tornato a farsi vivo con un’intervista alla Bbc in cui difende la sua scelta. «Non avevo alternative». Ci sono alternative, invece, alla crisi afghana. Perché è una crisi che dipende in buona parte dalle recenti scelte politiche dei governi occidentali, incluso quello italiano.
Per capirle meglio, occorre partire dal dato di fondo, strutturale: dal 2001, la comunità internazionale ha edificato un sistema statuale completamente dipendente dalle risorse esterne.
Nell’estate 2021 gli aiuti dei donatori stranieri rappresentavano ancora il 43% del Prodotto interno lordo e ben il 75% della spesa pubblica. In Afghanistan – uno Stato-rentier – i servizi fondamentali, a partire da istruzione e sanità, dipendono dunque dai donatori internazionali. In questi anni i bisogni statuali sono stati sostenuti da una media di 8,5 miliardi di dollari all’anno in aiuti.
SCEGLIENDO L’OPZIONE militarista anziché quella negoziale, a metà agosto i Talebani hanno messo a repentaglio il legame tra lo Stato afghano e i governi che ne alimentavano la sopravvivenza, in particolare quello con Washington, peso massimo in ambito militare e finanziario. E i governi euro-atlantici non hanno perso tempo: Washington ha congelato alla Federal Reserve di New York circa 9 miliardi di dollari di riserve della Banca centrale afghana; le sanzioni precedenti contro singoli Talebani sono diventate sanzioni contro il governo di fatto; gli aiuti allo sviluppo sono stati perlopiù interrotti; Banca centrale e Fondo monetario internazionale hanno congelato i trasferimenti previsti.
Da qui, il tracollo economico, il collasso del sistema bancario, la mancanza di liquidità nel Paese, gli stipendi non pagati a insegnanti, medici, la contrazione dell’economia.
E l’aggravarsi della crisi umanitaria: 23 milioni di persone (60 per cento della popolazione) soffre di insufficienza alimentare, il 95 per cento è sotto la soglia di povertà. In poche parole, come ricordato nell’ultimo rapporto dell’International Crisis Group: le vittime di questa fase rischiano di essere superiori a quelle del conflitto in sé.
La strada scelta finora dalle cancellerie è la più facile. Salvarsi la coscienza con qualche aiuto umanitario, che non implica rischi politici, soprattutto in ambito domestico: chi vorrebbe essere accusato di aiutare i Talebani? Così, il Dipartimento del Tesoro degli Usa ha adottato delle «licenze», valide solo per l’ambito umanitario, rispetto alle sanzioni in vigore. Il 22 dicembre lo stesso ha fatto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Mentre la Banca mondiale ha reso disponibile una parte del miliardo e mezzo di dollari dell’Afghanistan Reconstruction Trust Fund, limitandone l’uso al settore sanitario e alimentare. E l’Onu fa sapere che l’appello-richiesta fondi per il 2022 sarà il più ingente della storia: 4,5 miliardi di dollari.
La strada scelta è però insufficiente. L’aiuto umanitario non libera l’economia afghana dallo strangolamento finanziario voluto dai governi occidentali. E non li svincola dalla responsabilità di compiere scelte politiche difficili ma necessarie, a partire da una domanda: è più importante salvare la popolazione afghana o colpire il regime dei Talebani?
* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]
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