Siria. A Baghouz un massacro di civili nascosto dagli Stati Uniti
Inchiesta del New York Times: il 18 marzo 2019 tre bombe sull’ultima enclave dell’Isis uccisero 64 civili. Washington: «Atto di difesa». Fin da subito dentro l’esercito si parlò di possibile crimine di guerra dell’unità di élite Task Force 9. Tre giorni dopo le Sdf avrebbero liberato la città siriana, dove cadde anche Lorenzo Orsetti
Lungo le rive dell’Eufrate il 21 marzo 2019, giorno di Newroz, il capodanno curdo, in Siria si concludeva una delle battaglie più feroci. Un’operazione militare iniziata come offensiva terrestre e diventata un assedio lungo settimane.
A condurla erano le Sdf, le Forze democratiche siriane, federazione delle unità di autodifesa di diverse etnie e confessioni (curdi, arabi, assiri, turkmeni e siriaci, musulmani e cristiani) contro l’Isis in quella che era divenuta – dopo anni di resistenza delle comunità e della loro graduale liberazione – l’ultima sua enclave.
L’avevano tutti, non a caso, ribattezzata «l’ultima battaglia», quella che poneva fine dopo cinque anni al progetto statuale di Daesh, cominciato tra il 2013 e il 2014, tra la siriana Raqqa e l’irachena Mosul. A terra c’erano 15mila combattenti organizzati dall’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est. A sostenerli dal cielo c’era la coalizione internazionale, i caccia di Stati uniti, Francia e Regno unito.
Sull’altro lato, migliaia di miliziani islamisti, un numero che si è via via assottigliato: man mano che le Sdf liberavano uno dopo l’altro i quartieri più periferici di Baghouz, con il loro carico di decine di migliaia di sfollati fatti uscire con i corridoi umanitari, gli islamisti rimasti si arroccavano lungo il fiume.
Protetti da cecchini, ordigni disseminati per le strade, da kamikaze e da veri e propri scudi umani: civili, moltissimi dei quali loro familiari, che hanno reso l’avanzata un lungo assedio, terribile. Dopo settimane di battaglia trovare cibo era quasi impossibile. Le Sdf aprivano altri corridoi umanitari, mettevano in pausa la battaglia per far scappare chi voleva andarsene, tra loro anche tanti miliziani che preferivano arrendersi.
Due giorni prima della liberazione di Baghouz e della bandiera gialla delle Sdf con al centro la mappa della Siria che prendeva finalmente il posto di quella nera dell’Isis, lì cadde Lorenzo Orsetti, combattente italiano, Tekoser il nome di battaglia in curdo.
Giorni complessi, lunghissimi. Qualche volta si accendeva anche una speranza: si era diffusa la voce che a Baghouz fossero tenuti ostaggi padre Paolo Dall’Oglio e il giornalista John Cantlie. Non furono trovati.
Ora, a tre anni e mezzo di distanza da quei giorni, si aggiunge un non detto: il bombardamento americano che cadde su un gruppo di donne e bambini a Baghouz il 18 marzo 2019. Almeno 64 vittime, colpite vicino al fiume, in quello che è stato chiamato il Fort Alamo dell’Isis.
All’epoca l’esercito parlò di 16 miliziani islamisti e quattro civili, ma si disse «non in grado di definire lo status di oltre 60 altre vittime»: «Probabilmente la maggior parte degli uccisi – ha detto domenica il capitano Bill Urban, portavoce militare Usa – erano anche combattenti al momento del bombardamento».
I dettagli sono stati resi noti due giorni fa con un’inchiesta pubblicata sul New York Times, secondo cui funzionari Usa, tra cui membri della Cia e delle forze armate, avevano già messo in dubbio la legittimità di quell’attacco, anche a fronte della denuncia di alcuni soldati che avevano fin da subito parlato di possibili vittime civili: «Chi l’ha lanciata?», scrisse subito un analista nella chat usata da chi monitorava i droni. «L’abbiamo appena lanciata su 50 donne e bambini», rispose un altro.
«Uno dei più grandi massacri di civili nella guerra all’Isis», lo definisce il Nyt: «Il bilancio di vittime è stato minimizzato. I rapporti sono stati ritardati, addolciti e classificati. Le forze della coalizione hanno raso al suolo il luogo del bombardamento».
Eppure fin da subito dentro l’esercito si parlò di possibile crimine di guerra. Era stato compiuto da un’unità d’élite, la Task Force 9, nemmeno il comando aereo Usa in Qatar ne era a conoscenza.
Il comando Usa, però, aveva nascosto l’evento senza dare spiegazioni e l’unica inchiesta interna era stata realizzata dalla stessa Task Force 9, da molti considerata al di sopra di qualsiasi legge: l’80% dei bombardamenti compiuti sono stati classificati come «auto-difesa», sebbene – secondo il Nyt – il 20% delle vittime civili in Siria sono state causate proprio da quell’unità. Ovviamente la Task Force 9 aveva concluso che il bombardamento era legittimo.
Secondo il quotidiano, all’alba del 18 marzo l’Isis aveva attaccato le Sdf con granate e kamikaze. Alle 10 si erano alzati in volo i jet americani dopo la richiesta di aiuto dei combattenti a terra. Il drone che sorvolava l’area non aveva però più missili né una buona visuale. Non poteva distinguere la presenza di civili tra le tende.
Arrivò un F-15E con bombe da 225 e 900 chili. Ne sganciò tre, l’ultima su persone che cercavano riparo. Il giorno dopo l’organizzazione «Raqqa is being slaughtered silently», nata per raccontare l’occupazione dell’Isis, pubblicò le foto dei corpi di donne e bambini.
In ogni caso per il comando centrale Usa si è trattato di un atto di difesa e comunque proporzionale perché a disposizione in quel momento c’erano solo bombe da una tonnellata. E poi, secondo Urban, «è importante notare che alcune donne e alcuni bambini, non importa se per scelta o perché indottrinati, decisero di prendere parte alla battaglia e non possono quindi essere classificati come civili».
* Fonte: Chiara Cruciati, il manifesto
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