Parigi. Dal vertice sulla Libia un vuoto appello per i diritti umani
Ieri l’ennesimo summit internazionale. Macron e gli altri leader presenti, tra cui Draghi, cercano di blindare le improbabili elezioni del 24 dicembre. Altro tema spinoso, il mancato ritiro dei combattenti e dei mercenari stranieri. Intanto continuano i ritrovamenti di fosse comuni
Salvaguardare le presidenziali e parlamentari libiche fissate per il 24 dicembre. È stato questo il senso del settimo incontro internazionale sulla Libia andato in scena ieri a Parigi. Il consueto vertice-vetrina co-presieduto da Francia, Italia (presente il premier Draghi), Germania, Nazioni unite e Libia a cui hanno preso parte anche la vicepresidente degli Stati uniti Harris, il ministro degli Esteri della Russia Lavrov, Ue, Lega Araba e gli attori regionali (l’Egitto con il presidente al-Sisi, Tunisia, Marocco, Niger, Ciad e Algeria). In una nota congiunta, i partecipanti hanno chiesto per la Libia elezioni «libere» e «inclusive» con la necessità che i risultati vengano «annunciati insieme».
IL TIMORE DEI LEADER presenti a Parigi è che un rinvio della tornata elettorale o un non riconoscimento della sua legittimità possa provocare lo scoppio di un nuovo conflitto nel Paese nordafricano: ecco quindi che preservare la roadmap elettorale diventa un imperativo categorico al punto da minacciare sanzioni contro chi ostacolerà o impedirà la data del 24 dicembre. Ma altro tema esplosivo è quello della sicurezza: ieri è stata ribadita la necessità di procedere con il ritiro di combattenti e mercenari stranieri. La chiosa finale è stata sull’obbligo per le autorità locali di garantire il rispetto del diritto umanitario, a partire da quello dei migranti sottoposti nell’ultimo mese a un giro di vite ancora più duro del solito come è stato documentato su questo giornale.
MA I SORRISI FINALI dei leader non possono nascondere alcune perplessità sull’utilità di questo ennesimo summit sulla Libia: la Turchia, protagonista assoluta del dossier libico, ha snobbato l’evento mandando solo un viceministro. C’è poi la tempistica del vertice ad essere discutibile: provare a salvare le elezioni a un mese dalla loro (sempre più teorica) convocazione è impresa disperata. Infine: che senso ha convocare una conferenza doppione a quella già vista nemmeno un mese fa a Tripoli?
Il paradosso di Parigi è riassumibile nella ministra degli Esteri libica al-Mangoush, presente agli incontri nonostante il divieto di viaggiare decretato lo scorso 6 novembre quando è stata «sospesa» dal Consiglio presidenziale della Libia per presunte «violazioni amministrative». L’ennesima frattura di uno scenario libico sempre più teso dove il premier Dabaiba rifiuta la legge elettorale promulgata dai loro rivali dell’est di Tobruk a causa dell’articolo 12 che impone a tutti i candidati di lasciare ogni incarico pubblico tre mesi prima del voto. Una mossa che di fatto impedisce a Dabaiba (visto da molti come il favorito) di prenderne parte.
Lo scollamento tra Parigi e la realtà libica è nella data del 24 dicembre a cui solo in pochi credono ormai in Libia: negli scorsi giorni il presidente della Commissione elettorale ha ribadito che le parlamentari potranno avere luogo solo 52 giorni dopo le presidenziali. C’è poi il Consiglio di Stato di Tripoli che continua a chiedere prima un referendum sulla Costituzione. A queste lacerazioni, Parigi propone la solita solfa già vista in questi anni. La più ipocrita è quella sul rispetto dei diritti umani dei migranti: non sono i governi occidentali – Italia in primis – quelli che finanziano chi è responsabile di brutali crimini ai loro danni in terra libica?
SENZA DIMENTICARE la Libia sotterranea da cui si continuano ad estrarre resti umani: a Tarhuna (sud-est di Tripoli) quattro giorni fa sono state scoperte tre nuove fosse comuni. A Bani Walid, nel distretto di Misurata, sono 5 i corpi scovati. Cartoline della Libia «liberata» post-Gheddafi.
* Fonte: Roberto Prinzi, il manifesto
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