In Libia sempre più difficile la protezione dei rifugiati
Mediterraneo. Il capo missione dell’agenzia Onu a Tripoli parla della protesta che va avanti da un mese: «Non possiamo evacuare i migranti, le soluzioni vanno trovate localmente»
Jean Paul Cavalieri è capo missione di Unhcr in Libia dall’aprile 2019. Da un mese è impegnato con la protesta di oltre 2mila rifugiati che dopo i rastrellamenti del 1 ottobre nei quartieri di Tripoli hanno cercato riparo davanti al Community Day Centre (Cdc) dell’organizzazione.
Com’è la situazione al Cdc?
Molto difficile. Ora ci sono circa 2mila persone. Hanno perso tutto nei raid. Non hanno un posto dove andare e temono di essere arrestate di nuovo.
Perché l’Unhcr non sta fornendo loro assistenza?
Offriamo assistenza, ma abbiamo dovuto sospenderla al Cdc per ragioni di sicurezza. Subito dopo i raid sono arrivate centinaia di persone e abbiamo provato ad aiutarne il più possibile, circa 150 al giorno. A Tripoli non abbiamo strutture di accoglienza, possiamo solo dare buoni pasto e denaro d’emergenza per affittare una casa finché non troviamo soluzioni più stabili. Dopo la fuga in massa dal centro di Al Mabani il flusso di persone è aumentato. Ci sono state minacce, non sappiamo da parte di chi, verso il nostro staff e i richiedenti asilo più vulnerabili che volevano assistenza dal Cdc. Ad alcuni è stato impedito di entrare per farli unire alla protesta e rivendicare il reinsediamento per tutti. Ma non possiamo soddisfare questa richiesta. Ci sono 42mila rifugiati in Libia e i posti per il reinsediamento sono scarsi. I voli sono stati sospesi dal direttore del Dipartimento per la lotta contro l’immigrazione irregolare (Dcim) ad aprile. 1.100 persone aspettano di partire. Dobbiamo dare priorità ai vulnerabili.
Oltre 4mila rifugiati sono stati arrestati durante i raid. Sono ancora detenuti?
Secondo le nostre stime l’8 ottobre dal centro di Al Mabani sono uscite 4mila persone. Le autorità non avevano capacità di gestirle. Ci sono stati scontri. Non è chiaro se siano riuscite a fuggire o le abbiano lasciate andare. Una metà crediamo sia stata riarrestata. L’altra è venuta al Cdc. Hanno paura a muoversi. Alle autorità libiche stiamo chiedendo garanzie.
L’Unhcr ha annunciato la ripresa dei voli umanitari del Meccanismo di transito di emergenza. Quando sarà il prossimo?
Speriamo parta domani con 173 rifugiati diretti in Niger. Lì faranno la procedura per il reinsediamento in paesi europei, Canada o altri.
In Libia i rifugiati rischiano la vita ogni giorno, come chi si trova in Afghanistan. Non si potrebbero evacuare anche loro?
Le soluzioni devono essere trovate localmente. I rifugiati in Libia non sono in condizioni diverse dagli altri migranti, che sono circa 570mila. Scappano dai loro paesi a causa della guerra ma scelgono la Libia non perché sia un paese sicuro, ma perché ha un’economia ricca e sanno che possono trovare lavoro, anche informale, e mandare le rimesse alle loro famiglie. È lo stesso meccanismo dei migranti. Quello che Unhcr e altre agenzie Onu dicono alle autorità libiche è che di questa manodopera il loro paese ha bisogno. Quello che serve è una migrazione circolare in cui le persone vengono a lavorare, perché alla Libia serve, e dopo tornano a casa. Ma questo deve accadere legalmente. Al momento ci sono dottori iracheni o di altre nazionalità che lavorano con i colleghi libici per fronteggiare il Covid ma non hanno né contratto, né documenti. Questo governo deve avere una politica di migrazioni legali. La Libia non ha firmato la Convenzione sui rifugiati del 1951 e non si vede come un paese d’asilo. Quello che diciamo alla nostra controparte libica è che almeno dia a queste persone un permesso per lavoro. A loro e ai migranti. Senza documenti si ritrovano in una situazione più precaria, possono diventare preda dei trafficanti, tentare di attraversare il mare in un viaggio pericoloso, le donne rischiano la prostituzione. La Libia ha iniziato a riconoscere il problema. Altre soluzioni, poi, vanno cercate nei paesi di partenza e di transito.
Le autorità libiche avranno iniziato a riconoscere il problema, ma un mese fa hanno arrestato migliaia di rifugiati. Al di là di possibili soluzioni a lungo termine, oggi l’Unhcr può proteggere la vita dei rifugiati?
No, non possiamo. Perciò dobbiamo lavorare con il governo, che ha la responsabilità delle persone sul suo territorio. Siccome la legislazione sull’immigrazione non risolverà il problema di chi adesso è davanti al Cdc, nell’immediato serve che il governo libico: garantisca attraverso la protezione della polizia che i vulnerabili vi abbiano accesso; metta fine agli arresti arbitrari; riconosca i documenti rilasciati dall’Unhcr e dia la possibilità di registrazione nei municipi di residenza. L’Unhcr può solo essere parte della soluzione, anche perché dopo 30 anni di attività siamo l’unica agenzia Onu senza un accordo con il paese. La nostra presenza può essere cancellata in qualsiasi momento. Non ci vengono rilasciati i visti per alcuni responsabili. È una situazione schizofrenica: le autorità non riconoscono l’Unhcr ma poi chiedono costantemente aiuto con i rifugiati.
C’è un posto sicuro dove possono andare le persone accampate davanti al Cdc?
No, non c’è. Almeno questo è quello che ci dicono.
* Fonte: Giansandro Merli, il manifesto
ph by MONUSCO Photos, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons
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