by Anna Maria Merlo * | 16 Novembre 2021 8:54
Terra terra. L’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi è un passo positivo del «patto» ma rischia di restare carta straccia
La Terra riscaldata dall’azione umana potrebbe riprendere la frase attribuita alla contessa du Barry, sul patibolo prima di essere ghigliottinata nel 1793: «Ancora un momento, vi prego, signor boia». I 196 paesi (più la Ue) presenti alla Cop26 si sono concessi, per il momento, un anno di tempo per rispondere davvero alla sfida climatica: le vere decisioni dovranno essere prese a Sharm el-Sheikh, in Egitto, nel novembre 2022, alla Cop27.
INTANTO, STANDO AL TESTO del Patto Climatico di Glasgow, l’obiettivo di mantenere il riscaldamento entro 1,5 gradi per fine secolo «è stato mantenuto in vita» ha detto il presidente Alok Sharma, «ma il polso è debole e sopravviverà solo se gli impegni saranno rapidamente tradotti in atti». Anche il primo ministro britannico, Boris Johnson, ha ammesso «delusione» per il cambiamento del testo di accordo all’ultimo minuto sotto pressione di India e Cina, ma considera che i passi avanti possano «cambiare» la situazione.
«QUANDO GUARDIAMO i nuovi impegni, francamente, è la montagna che ha partorito il topolino», secondo Inger Andersen, direttrice del Pnue (programma Onu per l’Energia): se si calcolano le promesse fatte nei più di 150 piani nazionali (Nationaly Determined Contributions, Ndc) sui 196 stati presenti, il probabile riscaldamento a fine secolo sarà di +2,7 gradi. E’ un piccolo passo avanti – precedentemente il Nue aveva calcolato +3,2 gradi – ma sempre lontano dall’impegno di +1,5 gradi. I Ndc presentati porteranno a un aumento delle emissioni di Co2 del 14% nel 2030 (sul 2010), mentre per rispettare 1,5 gradi sarebbe necessaria una diminuzione del 45%.
LA DIFFICOLTÀ DIPENDE dal fatto che una serie di paesi, gradi produttori di carbone e energie fossili, hanno presentato piani che non contengono i necessari miglioramenti. L’azione dei 503 lobbisti del carbone presenti a Glasgow è stata efficace. Il giorno dopo le conclusioni di Glasgow, Climate Action Tracker sostiene che il riscaldamento sarà di 2,4 gradi, stando ai Ndc presentati per il 2030, gli «impegni sono totalmente insufficienti», «la realizzazione sul terreno avanza a passo di tartaruga».
TRA I PRINCIPALI PASSI avanti c’è la menzione del «carbone» e delle «energie fossili», il riferimento alla necessità di mettere fine alle sovvenzioni per queste energie responsabili del 90% delle emissioni di Co2, assenti dall’Accordo di Parigi. Inoltre, sono state completate le regole per l’applicazione dell’Accordo di Parigi, concluso 6 anni fa (in particolare sull’articolo 6 sul funzionamento del mercato del carbone). Resta il problema che molte promesse riguardano un orizzonte lontano, la neutralità carbone è auspicata per «metà secolo» (significa tra il 2040 e il 2070, a seconda dei paesi) e «molte promesse rimandano gli sforzi a dopo il 2030» afferma Inger Andersen. In più, manca la trasparenza: non ci sono controlli sul ritmo di realizzazione dei piani, né sanzioni per chi non li rispetta. Molti Ndc, poi, mancano di precisione.
L’ALTRO GRANDE PUNTO nero del risultato è lo scontro Nord-Sud. I paesi ricchi, primi responsabili del riscaldamento climatico, non hanno ceduto alla domanda di compensazioni per «perdite e danni» subiti dai poveri, che sono le prime vittime degli effetti del cambiamento climatico (temono ripercussioni giuridiche). Lo ha ammesso Boris Johnson: «quelli per cui il cambiamento climatico è già questione di vita o di morte, che vedono le loro isole sommerse, le terre arabili diventare deserte, le case travolte dalle tempeste, chiedevano un’alta ambizione. Molti volevano prendere questa strada, ma non tutti. E’ triste, ma è la natura della diplomazia». C’è la promessa di raddoppiare gli aiuti, i famosi 100 miliardi l’anno promessi nel 2009 ma mai mantenuti, quando in realtà ci vorrebbero molti più soldi.
OGGI, IL 75% DEI FONDI devoluti ai paesi poveri per far fronte alla transizione e all’adattamento lo sono sotto forma di prestiti e non di sovvenzioni, cioè si traducono per un aumento del debito (e solo il 20% di questi fondi sono destinati all’adattamento). I paesi insulari hanno espresso profonda delusione, ma alla fine hanno sottoscritto il testo, anche se ridimensionato all’ultimo minuto, con l’abbandono dell’ «eliminazione progressiva del carbone» per sostituirlo con una più blanda «diminuzione».
LA COP26 HA DIMOSTRATO che anche il metodo di negoziato non funziona. Per un accordo, ci vuole l’unanimità, difficile se non impossibile da raggiungere. Ci sono invece stati risultati parziali, a livello di gruppi di volontari: un accordo Usa-Cina, che ha grande importanza simbolica, cento paesi per lo stop alla deforestazione entro il 2030, un altro centinaio per ridurre il metano del 30% entro quella data, 40 paesi impegnati a uscire dal carbone (ma non ci sono Usa e Cina) e un altro a non finanziare investimenti nei combustibili fossili all’estero; c’è l’alleanza Boga (Beyond oil and gas) che fa balenare l’uscita dai carburanti fossili. 450 istituzioni finanziarie, che gestiscono centinaia di miliardi di capitale, hanno promesso di investire in energie pulite.
* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto[1]
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