Migranti. Dal Chiapas a Città del Messico, in marcia per i diritti
America centrale. Seimila migranti in viaggio contro le leggi del presidente Amlo che limitano il diritto d’asilo, allungando i tempi e lasciando senza risposte. A organizzare la carovana associazioni per i diritti umani. La polizia prova a fermarli, ma il cammino prosegue
La drammatica situazione di migliaia di migranti confinati da mesi a Tapachula viene tristemente ridimensionata dal ministro degli esteri messicano Marcelo Ebrard: «Agiremo con prudenza e rispettando la legge e i diritti umani, ma vogliamo dire che c’è chi sta ingannando queste persone perché non è vero che le lasceranno passare negli Stati uniti».
Il riferimento, non troppo velato, è a Irineo Mujica, direttore di Pueblos sin Fronteras, e a García Villagrán, direttore del Centro per la Dignità umana, che stanno guidando le persone che sabato scorso hanno deciso di muoversi dal Chiapas verso Città del Messico e pretendere i documenti che aspettano da mesi.
Una nuova carovana migrante che non punta, almeno nelle intenzioni rese pubbliche dagli organizzatori, al confine con gli Usa, ma a rendere visibile la situazione e i tempi d’attesa a cui i migranti centroamericani sono costretti con le nuove leggi firmate dal presidente Amlo e spinte dal vicino a stelle e strisce.
Ebrard pare dimenticare che i tempi di attesa, per chi entra in Messico e decide di chiedere i documenti – previsti dalla legge – per attraversare il paese o fermarsi sono di almeno quattro mesi solo per il primo appuntamento alla Commissione nazionale per i Rifugiati (Comar) e avviare la procedura di asilo.
Dopo il primo appuntamento ci sono altri quattro, cinque o sei mesi d’attesa affinché il personale migratorio messicano (Inm) si occupi del caso e dia risposte. Ed è proprio questo dispositivo che ha trasformato Tapachula in un carcere a cielo aperto: oltre 100mila persone aspettano di avere una risposta alle domande di asilo o di fissare un appuntamento per presentare la pratica.
Le associazioni per i diritti umani denunciano con forza la situazione. Forse per questo Pueblos sin Fronteras ha deciso di forzare i tempi e organizzare, più che una carovana, una grande marcia per i diritti. Forse la presenza di ong ha fatto sì che la repressione poliziesca sia stata diversa rispetto al recente passato. A pochi chilometri dalla partenza la Guardia nazionale ha cercato di bloccare i 6mila migranti. Ci sono stati scontri e 100 arresti ma la carovana non è stata sciolta.
La strada per la capitale è lunga e tra una pausa e l’altra i migranti sono ancora in Chiapas. La carovana, così come l’apertura della frontiera tra Usa e Messico, chiusa dal marzo scorso come misura di contenimento della pandemia Covid19, rischia di essere solo una nuova illusione.
«Sappiamo di essere in grave pericolo – dice ad Aristegui Noticias Lizeth Paniagua, migrante salvadoregna che partecipa alla carovana con quattro figli e il marito – ma con la volontà di Dio raggiungeremo il confine con questa carovana». Lizeth tradisce il reale sogno di chi si è mosso da Tapachula, ovvero superare il confine con gli Usa. La tappa di Città del Messico è per molti un pretesto e la speranza, quasi impossibile, di ricevere lo status di richiedente per passare il Rio Bravo legalmente.
* Fonte: Andrea Cegna, il manifesto
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