Vent’anni di guerra. L’11 settembre prima dell’11 settembre
In un articolo apparso su Limes nel marzo 1994 scrivevo di Osama Bin Laden, del ruolo della Cia e dei collegamenti con i gruppi jihadisti in Medio Oriente e in Bosnia. E del primo attentato alle Torri Gemelle del ’93: era l’11 settembre prima dell’11 settembre.
Oggi si cercano di vendere come novità cose di 30 anni fa. Ecco perché, vent’anni dopo l’11 settembre 2001, gli americani hanno riconsegnato l’Afghanistan ai talebani: era un copione in parte già scritto perché sono decenni che gli americani, con alterne fortune, «giocano» con integralisti e terroristi.
Agli inizi del ’94 non era passato molto tempo da quando democratici e repubblicani erano uniti al Congresso in un coro appassionato per appoggiare la «giusta guerra» dei mujaheddin afghani contro il regime di Najibullah e i suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, erano trascorsi dalla caduta di Kabul, nell’aprile ‘92, e dalla vittoria contro i comunisti. Un’altra guerra in quel momento insanguinava l’Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in alleanza con un ex comunista, il generale uzbeko Dostum, stava mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul erano state chiuse, le organizzazioni umanitarie avevano sbarrato le loro sedi una nuova ondata di profughi si rovesciava in Pakistan. Quel 1994 afghano somigliava un pò al 2021.
L’Afghanistan era dilaniato da feroci divisioni etniche e settarie ma a Washington l’«operazione Kabul» contro l’Urss veniva comunque classificata come uno dei più clamorosi successi degli Usa. In stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, l’America aveva riversato la maggior parte dei suoi aiuti all’integralista Hekmatyar, alleato dei leader musulmani più radicali, che aiutavano il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente.
I più estremisti continuavano a ricevere sostanziosi aiuti dall’Arabia Saudita che, in feroce concorrenza con l’Iran degli ayatollah, tentava di mettere il proprio «sigillo» finanziario e ideologico sui movimenti integralisti. Con risultati discutibili, considerando che la «pista afghana» era tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica dall’Alto Nilo fino alle montagne dell’Atlante.
Nel ‘93 la Cia fu costretta a stanziare 65 milioni di dollari per riacquistare sul mercato nero centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujaheddin durante la guerra contro il regime di Kabul. «Gli americani – mi disse allora lo storico Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano – stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro».
Agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici per mettere alle corde Mosca. Gli Usa inoltre aveva delineato un altro obiettivo.
Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita di stampo conservatore, alleato dell’Occidente, da opporre all’integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione «strategica» era condivisa dai sauditi che per anni avevano foraggiato tutti i movimenti integralisti.
Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di «stelle» della galassia integralista, tra questi lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman.
I rapporti tra gli Usa e lo sceicco presentavano molti lati oscuri. Il 26 febbraio 1993 un furgone-bomba esplose nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center a Manhattan con l’intenzione di causare una strage con l’implosione delle Torri Gemelle. Le strutture portanti del grattacielo tennero e non crollò, ma rimasero uccise 6 persone e ci furono mille feriti.
Secondo una versione della storia, Rahman – arrestato come ispiratore dell’attentato alle torri del World Trade Center – sarebbe stato presentato alla Cia da Hekmatyar in Pakistan, nell’88. Questo dava credito alla tesi secondo cui era stato un agente dell’ambasciata Usa di Khartoum a rilasciargli il visto per gli Usa.
L’attentato alle Torri Gemelle di New York del ‘93 dimostrava già allora quanto fosse pesante l’eredità della strategia americana in Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell’«affaire» erano infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese arrestato nel 93 che progettava di far saltare il tunnel dell’Onu e la sede dell’Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l’Afghanistan. Tutto con il consenso della Cia.
Dalle file dei combattenti dello sceicco Omar Abdul Rahman, accompagnato dal suo luogotenente palestinese Abdullah Azam, mentore di Osama bin Laden, uscivano i guerriglieri che si infiltrarono poi a migliaia in Algeria, nella valle dell’Alto Nilo, in Egitto, Yemen, Sudan, e i nuclei dei terroristi islamici.
«Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana – affermava sull’Independent del 6 dicembre ‘93 Robert Fisk introducendo un’intervista a Bin Laden, fondatore di Al Qaeda – bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d’affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico». Robert, come spesso accadeva, ci aveva visto lungo.
* Fonte: Alberto Negri, il manifesto
ph by Wally Gobetz, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons
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