Il fallimento della «guerra globale al terrorismo»

by Manlio Dinucci * | 10 Settembre 2021 9:16

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La ricaduta . Sempre più i conflitti armati impegnano forze speciali e droni-killer. Il pronto-uso non richiede il voto del Congresso

 

Due notizie pubblicate in questi giorni dal Washington Post – «Le famiglie dell’11 Settembre dicono che Biden non è il benvenuto agli eventi commemorativi a meno che non rilasci le prove in mano al governo» e «Biden firma un ordine esecutivo che richiede la revisione, la declassificazione e il rilascio di documenti classificati dell’11 Settembre» – aprono altre profonde incrinature nella versione ufficiale. Il fatto che, a vent’anni di distanza, ci siano negli armadi di Washington documenti segreti sull’11 Settembre significa che la sua reale dinamica è ancora da appurare.

È invece chiaro quale processo abbia messo in moto l’11 Settembre. Nel decennio precedente, venuto meno l’«impero del male» sovietico, la strategia Usa si era concentrata sulle «minacce regionali», conducendo le prime due guerre del dopo-guerra fredda: quella del Golfo e quella contro la Jugoslavia. Loro scopo: rafforzare la presenza militare e influenza politica Usa nell’area strategica del Golfo e nella regione europea, nel momento in cui se ne stavano ridisegnando gli assetti. Contemporaneamente gli Usa rafforzavano la Nato attribuendole (col consenso degli Alleati) il diritto di intervenire fuori area ed estendendola ad Est nei paesi dell’ex Patto di Varsavia.

Nel frattempo, però, l’economia statunitense, pur restando la prima del mondo, aveva perso terreno anche nei confronti di quella dell’Unione europea. Nel mondo arabo vi erano crescenti segni di insofferenza per la presenza e influenza Usa, mentre in Asia il riavvicinamento russo-cinese prospettava la possibilità di una coalizione in grado di sfidare la supremazia statunitense. Esattamente in questo momento critico, l’attacco dell’11 settembre 2001 permette agli Stati Uniti di aprire una nuova fase strategica, con la motivazione ufficiale di affrontare la «minaccia globale del terrorismo».

È una guerra di nuovo tipo, di carattere permanente, in cui non vi sono confini geografici, condotta contro un nemico che può essere identificato di volta in volta non solo in un terrorista, ma in chiunque ostacoli gli interessi statunitensi. L’immagine perfetta di nemico, intercambiabile e duratura. Il presidente Bush lo definisce «un nemico oscuro, che si nasconde negli angoli bui della Terra», da cui emerge all’improvviso per compiere alla luce del sole azioni terrificanti, con un fortissimo impatto emotivo sull’opinione pubblica.

Inizia così la «guerra globale al terrorismo»: nel 2001 gli Stati uniti attaccano e occupano l’Afghanistan, con la partecipazione dal 2003 della Nato; nel 2003 attaccano e occupano l’Iraq con la partecipazione di alleati Nato; nel 2011 attaccano con la Nato lo Stato libico, distruggendolo (come avevano già fatto con la Jugoslavia); sempre nel 2011 iniziano la stessa operazione in Siria, bloccata quattro anni dopo dall’intervento russo a sostegno di Damasco; nel 2014, con il putsch di Piazza Maidan, aprono in Ucraina un altro conflitto armato.

Nella «guerra globale al terrorismo» gli Usa finanziano, armano e addestrano (con l’aiuto in particolare dell’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo) movimenti terroristici islamici, sfruttandone di volta in volta le rivalità: in Afghanistan mujaidin e talebani; in Libia e in Siria una raccoglitizia armata di gruppi fino a poco prima bollati da Washington come terroristi, provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia e altri paesi. Nel maggio 2013, un mese dopo aver fondato l’Isis, il «califfo» Ibrahim al-Badri incontra in Siria il senatore statunitense John McCain, capofila dei repubblicani incaricato dal democratico Obama di svolgere operazioni segrete per conto del governo.

La guerra viene non solo condotta con forze aeree, terrestri e navali ma, sempre più, con forze speciali e droni-killer. Il loro uso offre il vantaggio di non richiedere l’approvazione del Congresso e di rimanere segreto, non suscitando reazioni nell’opinione pubblica. I commandos delle operazioni speciali spesso non portano l’uniforme, ma si camuffano con abbigliamento locale. Gli assassini e le torture che compiono restano così anonimi. La «Team Six», élite dei Navy Seals, è così segreta che ufficialmente non se ne ammette neppure l’esistenza. Secondo il racconto ufficiale è questa unità che nel 2011 uccide Osama bin Laden, il cui presunto cadavere viene sepolto in mare. Oppure viene inscenata l’uccisione di un Bin Laden già morto o catturato.

Per la «guerra non-convenzionale», il Comando Usa per le operazioni speciali impiega sempre più anche compagnie di contractor (mercenari), Nell’area del Comando Centrale Usa, comprendente il Medio Oriente, i contractor del Pentagono sono oltre 150 mila. Si aggiungono quelli assunti da altri dipartimenti e dagli eserciti alleati. Essi vengono forniti da un oligopolio di grandi compagnie, strutturate come vere e proprie multinazionali.
In tal modo la guerra sparisce sempre più dai nostri occhi, mettendoci nella condizione di chi cammina su un terreno apparentemente sicuro, non sapendo che sotto i suoi piedi agiscono le forze che possono provocare un catastrofico terremoto.

* Fonte: Manlio Dinucci, il manifesto[1]

 

 

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