by Alessandra Briganti * | 26 Settembre 2021 18:23
Il Kosovo del Nord torna a bruciare. Da un parte l’esercito serbo è in stato d’allerta, dall’altro i reparti speciali della polizia kosovara accorrono a presidiare un confine da cui non entra e non esce più nessuno da giorni. Nel mezzo, barricate, blocchi stradali, scambi di accuse, alternati a inviti alla calma puntualmente disattesi.
La tensione continua a salire. Venerdì notte a Zubin Potok, cittadina di quella terra di nessuno a maggioranza serba che è il Kosovo del Nord, il centro di registrazione dei veicoli è stato divorato dalle fiamme da un incendio che secondo le autorità kosovare, sarebbe di natura dolosa. È l’ultimo capitolo della «guerra delle targhe» scoppiata lunedì scorso a seguito della decisione di Pristina di impedire l’accesso sul territorio ai veicoli con targa serba, imponendo l’uso di una targa provvisoria, recante la dicitura RKS, Repubblica del Kosovo, al costo di 5 euro e con validità di due mesi.
Una provocazione in violazione degli accordi di Bruxelles, accusa Belgrado, che chiede a Ue, Usa e Regno Unito di fare chiarezza sull’esistenza o meno degli obblighi derivanti dall’intesa. Nessuna violazione, ma una risposta ad un analogo obbligo per i veicoli kosovari che entrano in Serbia, è la replica di Pristina, determinata a far valere un principio di reciprocità nei rapporti con la Serbia che di fatto sottende a un riconoscimento da parte di Belgrado dell’ex provincia serba, dichiaratasi unilateralmente indipendente nel 2008.
E mentre gli aerei della missione Nato (Kfor) tornano a sorvolare i cieli del Kosovo del Nord, lo scontro si sposta nella sede della diplomazia per antonomasia. Nel suo intervento alla 76ma sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, la premier serba, Ana Brnabic, ha accusato platealmente le autorità di Pristina di aver «provocato una grave crisi», con una «irrazionale dimostrazione di forza» nel Kosovo del Nord. D’altra parte, il premier albanese, Edi Rama, nel suo intervento in aula non ha toccato la questione nello specifico, ma ha lanciato un appello a tutti gli Stati affinché riconoscessero la sovranità del Kosovo, «una realtà che dura da 13 anni e che tutti devono riconoscere».
Quella realtà invocata da Rama, però, è in crisi. Interna, come sottolinea l’opposizione kosovara che accusa il premier Albin Kurti di giocare la carta nazionalista per guadagnare consensi in vista delle prossime elezioni amministrative che danno il suo partito Vetevendosje in calo rispetto al voto dello scorso febbraio. Un suo eventuale ridimensionamento potrebbe avere ricadute anche sulla difficile realizzazione del suo programma di governo che prevede in primis la «liberazione» del Kosovo dalla corruzione che permea la pubblica amministrazione.
Ma la crisi è anche esterna. Kurti, che non ha mai considerato il dialogo con la Serbia una priorità del suo governo, è stato costretto a fare marcia indietro. La sua intransigenza, tuttavia, sommata all’abilità del presidente serbo, Aleksandar Vucic, di sfruttare a proprio vantaggio le crepe che si sono aperte a livello internazionale – dalla rivalità tra Stati Uniti e Cina, a quella tra Europa dell’Est e dell’Ovest, alla crisi dei migranti – hanno finito col mettere Pristina in un angolo.
La prova più evidente è stata la cosiddetta mini-Schengen, ribattezzata poi Open Balkans, ossia la creazione entro il 2023 di un mercato unico tra Serbia, Albania e Macedonia del Nord sul modello dell’Ue. L’iniziativa, aperta a tutti gli Stati della regione, è fortemente avversata in particolare dal Kosovo che non ha risparmiato a Tirana accuse di tradimento, segnale quest’ultimo delle divergenze tra Kurti e Rama che rispecchiano due diversi modi di concepire non solo la democrazia, ma soprattutto il quadro internazionale che va delineandosi all’orizzonte.
Ancor più eclatante però è l’endorsement all’iniziativa degli Stati Uniti, che in questa fase sembrano voler spingere verso un accordo che spiani la strada ad entrambi i Paesi verso l’adesione all’Ue, in modo da restringere il margine d’azione non solo della Russia, ma soprattutto della Cina, il nuovo attore nell’arena dei Balcani che sta scompaginando i fragili equilibri che avevano caratterizzato il dopoguerra.
* Fonte: Alessandra Briganti, il manifesto[1]
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