Al Qaeda, dalla jihad globale al radicamento locale
Afghanistan. Dal jihad globale a una vittoria del radicamento locale suggerito già da bin Laden
I Talebani ci ripensano: oggi, 11 settembre, non si terrà nessuna cerimonia di insediamento del nuovo governo, come anticipato. O forse sì. Lo schiaffo esemplare a Washington d’altronde sta già nel loro ritorno al potere, venti anni dopo il rovesciamento del primo Emirato. Sui muri di Kabul si moltiplicano le scritte: «Abbiamo sconfitto l’America». Sul perimetro esterno dell’ex ambasciata degli Stati uniti, grande edificio in costante ampliamento, ci sono frasi dei leader dei Talebani. Il Paese è nostro.
UNA PARTE DELL’AMBASCIATA si affaccia sulla rotonda Massoud, il leader della cosiddetta Alleanza del Nord glorificato come vincitore della guerra fredda, novello Napoleone, paragonato a Tito, Che Guevara e molti altri. Glorificato dal buon Ettore Mo e dal pessimo Bernard-Henry Levy. Stratega militare e retore carismatico, è stato ucciso due giorni prima dell’11 settembre dagli inviati del Groupe Combattant Tunisien, l’organizzazione fondata nel 2000 da Abu Iyad al-Tunisi e Tarek Maroufi, islamisti radicali con ampie frequentazioni in Europa.
Massoud era così carismatico che fece un’ottima impressione anche al più importante ideologo e stratega jihadista del XX secolo, il mentore di Osama bin Laden, Abdallah Azzam. Palestinese, nato a Jenin nel 1941, inventore della «carovana del jihad», incontra Massoud la prima volta tra il settembre e l’ottobre del 1988 nel distretto di Farkhar, nella provincia di Takhar.
Parlano a lungo, tanto che Azzam, l’uomo che avrebbe contribuito più di tutti a imprimere una torsione «globalista» al jihadismo, ne tira fuori un libriccino. Non riesce a essere pubblicato a Peshawar, dove Azzam aveva fondato il Services Bureau, l’ufficio di reclutamento dei combattenti arabi che volevano fare il jihad contro i russi, per l’opposizione di Gulbuddin Hekmatyar, ostile a Massoud.
ORA PARTE DI QUEL LIBRO è stata tradotta dal giornalista Tam Hussein. E permette di avere uno sguardo sulla dialettica interna all’islamismo radicale di quegli anni. E di tornare dalla rotonda Massoud all’internazionale jihadista. Un fenomeno che avrebbe superato di gran lunga le ambizioni del suo ispiratore, Abdallah Azzam. Perché a volte le scelte politiche hanno conseguenze non intenzionali. Vale per Azzam. Che nel 1984 redige una fatwa secondo cui chiunque può decidere autonomamente di fare il jihad, senza il permesso delle autorità. Un’indicazione che aiuta il jihad afghano, ma che dà anche la stura a un processo di frammentazione con conseguenze oggi ancora rilevanti. Contrarie alle intenzioni di Azzam, che invocava ordine e gerarchia e puntava all’unità, non alla frammentazione del fronte.
Vale però anche per le decisioni degli Stati uniti di condurre la guerra in Afghanistan come rappresaglia all’11 settembre, di cui i Talebani non erano responsabili. A dispetto di quel che sostengono i sostenitori della tesi del «caos intenzionale», Washington non intendeva restare impelagata nel Paese per 20 anni, uscendone sconfitta, umiliata, con altri 13 marines morti all’aeroporto di Kabul, solo per passare la patata bollente agli antagonisti regionali. Gli obiettivi erano diversi. Ma la storia va in direzione a volte opposta rispetto ai progetti dei grandi attori. E a favore di quelli più piccoli.
I TALEBANI HANNO VINTO. L’Emirato islamico è risorto. A pochi anni dalla caduta di un altro edificio istituzionale ammantato di sacralità religiosa, lo Stato islamico costruito tra Iraq e Siria, con ambizioni di ulteriore espansione. I Talebani hanno vinto per molte ragioni, ma anche perché hanno giocato una partita interna ai confini dello Stato-nazione, pur godendo di una retrovia in Pakistan e del sostegno di sponsor stranieri. Ma rimangono un gruppo jihadista dalla vocazione nazionale. Non hanno intenzione di esportare il loro modello altrove, al contrario dello Stato islamico.
La loro vittoria dimostra che tutti i jihadisti non sono uguali, che i jihadisti possono ottenere successi duraturi se usano la violenza militare insieme alla diplomazia. E se combattono contro il nemico vicino, non contro il nemico lontano. La loro conquista del potere a Kabul potrebbe consolidare una tendenza già in atto nell’arcipelago jihad, contraria rispetto alla torsione globalista di cui Azzam è stato ispiratore e che storicamente è stata il frutto della repressione interna esercitata negli anni Sessanta e Settanta dai regimi arabo-musulmani. Repressione che – altro effetto non intenzionale – favorì l’internazionalizzazione dell’islamismo radicale.
LO DICE MEGLIO DI TUTTI lo studioso Thomas Hegghammer in un libro cruciale, The Caravan, dedicato proprio ad Azzam: non è stato il conflitto afghano a rendere globale il jihad, ma il panislamismo frutto della precedente repressione domestica in Paesi come Siria ed Egitto. Oggi quella fase storica – rappresentata esemplarmente dallo Stato islamico e dalla “prima” al-Qaeda – potrebbe essere finita. O compromessa. C’è un ritorno al radicamento locale, alle questioni “domestiche”, all’attenzione comunitaria da parte dei gruppi jihadisti. Una strategia che già l’ultimo bin Laden suggeriva di adottare.
BASSO PROFILO, OCCULTAMENTO, ricerca del potere in chiave regionale. Una tesi che pochi giorni fa ha fatto sua anche lo studioso siriano Hassan Hassan. E che viene incarnata dal ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan. Per alcuni gruppi jihadisti è una vittoria ottenuta con metodi impropri, con il negoziato e dunque la collusione con il nemico. Per altri, potrebbe essere un’indicazione di un modello da seguire. Per prendere il potere e mantenerlo.
* Fonte:Giuliano Battiston , il manifesto
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