Narco-Stati. In Afghanistan ora l’oppio anche sui terreni statali
Vent’anni fa gli ettari coltivati erano 8mila, oggi sono 224mila
Nel 2001, quando è iniziata l’invasione a guida statunitense dell’Afghanistan, secondo l’Ufficio contro la droga e il crimine delle Nazioni unite (Unodc), in quel remoto Paese dell’Asia centrale c’erano appena 8.000 ettari coltivati ad oppio. Numeri del tutto irrisori, nel paniere narcotico mondiale, rispetto ai 224.000 attuali (stima del 2020, ancora dell’Unodc). Sempre secondo i calcoli dell’Onu questa quantità di terreno avrebbe consentito una raccolta di 6.300 tonnellate di quel lattice bruno e amaro da cui si ricava l’eroina. Arrivando a garantire da solo (dato 2007), ben il 130% del fabbisogno mondiale: un terzo in più di quella che si consuma in un anno nel mondo.
L’ALTRO PROBLEMA è che se prima dell’invasione la raffinazione di questa sostanza avveniva nei Paesi limitrofi (Iran e Pakistan in testa), con l’anarchia data da questi vent’anni di occupazione, ora la maggior parte dell’oppio afghano è raffinato direttamente nel Paese. Arrivano al quarto grado di raffinazione, il più pregiato, producendo anche l’eroina di colore bianco. Da 70 chili di oppio grezzo secco ricavavano (dati Unodc) circa 7,8 chili di bianca afghana, circa il doppio nel caso di quella tradizionale di colore bruno. Fino agli anni Novanta, l’eroina bianca veniva realizzata soprattutto in Thailandia, nell’ormai noto Triangolo d’Oro (Myanmar, Laos, Cambogia), leader mondiale nella produzione di questa sostanza fino all’invasione dell’Afghanistan da parte della coalizione internazionale a guida statunitense.
A SCOPRIRLO, NEL 2008, la collega Valentina Avon, la quale contattando gli uffici a Kabul dell’Unodc aveva ricevuto la seguente risposta: «C’è un chiaro trend in Afghanistan verso la produzione di eroina di elevato grado di purezza, destinata all’esportazione (…) si tratta di eroina di grado 4 (…) chiamata Sheha o Pashtu (…) ci sono alcuni laboratori che producono eroina bianca di elevata purezza (…) fra il 60% e il 70% (…) eroina purissima dal 90 al 100% che richiede l’intervento di un chimico esperto». Ecco il narco-Stato che l’Occidente ha ora lasciato in mano ai talebani. Una storia che si ripete, come era già avvenuto nel Triangolo d’Oro dopo la guerra del Vietnam (1964-1975), l’altra grande cocente sconfitta statunitense a quelle latitudini.
DEL RESTO IN AFGHANISTAN, come prima in Indocina, fin dall’inizio la lotta al narcotraffico non è stata una priorità statunitense. Il ripristino dell’industria afghana dell’oppio, a loro stesso dire, serviva anzi a garantire la stabilità e la fedeltà di tutta la piramide del corrotto sistema di potere locale messo in piedi dopo l’invasione: dai capi tribali ai governatori, fino ai generali e ai ministri. Assicurava inoltre l’unica base di sussistenza della popolazione rurale afghana (il 75% del totale), diventando così il pilastro di un sistema di welfare che ha evitato una ribellione di massa dei contadini, altrimenti ridotti alla fame. I talebani, dal canto loro, nei territori rurali fuori dalle città che controllavano, sull’oppio riscuotevano le tasse, come su qualsiasi altro prodotto agricolo (un decimo del raccolto) o merce di passaggio.
SECONDO UNO STUDIO del think tank indipendente britannico Odi, nella provincia di Nimroz a controllo talebano da tempo, l’80% delle loro entrate derivavano proprio dalle tasse sulle merci in transito. Avevano rapporti con qualche signore della droga al pari dell’Occidente, agivano insomma da anti-Stato. Ma di certo non possiamo definirli dei narcos. In questi vent’anni di invasione si è arrivati al punto che l’oppio è stato addirittura coltivato su terreni statali, con la radio della Nato che rassicurava i contadini sul fatto che l’Alleanza non era lì per distruggere le piantagioni. C’è stata infine l’accusa di usare i voli militari per trasportare eroina. A noi italiani è stata persino trovata: il 27 marzo 2011, mezzo chilo occultato nelle casse di armi degli Alpini della Julia rientrate dall’Afghanistan nella caserma Manlio Feruglio di Venzone (Udine).
A TUTTO CIÒ OGGI SI È AGGIUNTO il consumo interno, con scene di droga all’aperto nelle città afghane del tutto simili a quelle che si vedevano in Occidente negli anni Ottanta. Infine, la metanfetamina. Da anni, i carichi di eroina intercettati al confine contengono in pari quantità anche quest’altra sostanza. La “cucinano” in loco, peraltro in una nuova variante semi-sintetica sfruttando l’efedra (o oman), pianta spontanea delle montagne afghane, considerata di poco valore. Qualcuno ha scoperto che si può usare nel produrre la meth al posto della sintetica pseudoefedrina, più difficile da reperire.
IL 17 AGOSTO, nella prima conferenza stampa dopo la presa di Kabul, il portavoce dei talebani, il mullah Zabihullah Mujahid, ha dichiarato che l’Afghanistan non sarà più un narco-Stato per la coltivazione del papavero da oppio e per il traffico mondiale della droga. Staremo a vedere, se non saranno proibizionisti interni e narcotrafficanti esterni.
* Fonte: Alessandro De Pascale, il manifesto
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