Mentre in Afghanistan crescono le vittime, l’Europa si blinda: «Rimpatriare i migranti»

by Giuliano Battiston * | 11 Agosto 2021 9:31

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L’avanzata talebana non si ferma. La richiesta è di Austria, Grecia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi e Belgio

 

In Afghanistan violenza e vittime civili aumentano di mese in mese, ma per i ministri di alcuni Paesi europei «deve essere una priorità per tutti trovare i modi per assicurare i rimpatri in Afghanistan» dei migranti arrivati in Europa.

È uno dei passaggi della lettera inviata alla Commissione europea dai ministri degli Interni e delle Migrazioni di Austria, Danimarca, Grecia, Germania, Paesi Bassi e Belgio. La lettera nasce in risposta alla nota verbale con cui l’8 luglio il ministero per i Rifugiati e i rimpatriati di Kabul comunicava all’Ue la sospensione per tre mesi – fino all’8 ottobre 2021 – dell’accettazione dei migranti afghani rimpatriati. Per i ministri europei la sospensione non va bene. Violerebbe infatti gli accordi tra Bruxelles e Kabul, che vanno contestualizzati. Il primo protocollo d’intesa è il Joint Way Forward, firmato nell’ottobre 2016, prima di un’importante conferenza internazionale dei donatori. Allora Kabul accettò il «patto-ricatto»: Bruxelles concedeva sostegno economico a Kabul in cambio dei rimpatri forzati.

Il Joint Way Forward è stato aggiornato e ampliato con la firma il 28 aprile 2021 della Joint Declaration on Migration/Cooperation (Jdmc). Come il precedente, il programma prevede anche i rimpatri forzati. Per i ministri firmatari della lettera inviata alla Commissione europea, anche se l’Afghanistan brucia Kabul non può sospendere l’accordo. I principi della Dichiarazione congiunta vanno rispettati. Anzi, c’è un «urgente bisogno di realizzare rimpatri, sia volontari che involontari, in Afghanistan».

In Afghanistan il fallimento politico, da cui deriva una gravissima crisi umanitaria e la spinta migratoria, è di tutti, anche dell’Europa. Ma i ministri firmatari temono soltanto il grande esodo di cui sono responsabili anche i governi che rappresentano. Li preoccupano i numeri passati e quelli futuri. Dal 2015, recita la loro missiva, «i Paesi dell’Ue hanno registrato circa 570.000 richieste di asilo» da parte di migranti afghani; nel 2020 «l’Afghanistan è stato il secondo Paese di origine» degli stranieri richiedenti asilo, «con 44.000 richieste». Intendono sigillare l’Europa. Impedire che il grande esodo arrivi nei Paesi europei.

Pensano di poter scaricare pesi e responsabilità sui Paesi di Asia centrale e Medio Oriente. Visto che ci sono già «circa 4,6 milioni di afghani all’estero, soprattutto nei Paesi confinanti», occorre «dare il migliore sostegno possibile nei Paesi confinanti» l’Afghanistan, «aumentare la capacità di protezione nella regione, che ridurrà la pressione migratoria lungo la rotta». Sono «necessarie nuove misure nella regione per prepararsi a un potenziale influsso di afghani». In poche parole: che se ne occupino Teheran e Islamabad. Semmai Ankara.

La data della lettera è significativa: 5 agosto 2021. I firmatari sono dunque ben consapevoli dell’offensiva militare condotta dai Talebani nel Paese; sanno bene che, secondo l’Alto Commissariato per le Nazioni Unite (Unhcr), sono circa 400.000 gli sfollati interni dall’inizio dell’anno (244.000 solo da maggio), i quali si sommano ai circa 3,5 milioni di sfollati già nel Paese. Conoscono le stime dell’Onu, secondo cui metà della popolazione, circa 18,5 milioni di persone, ha bisogno di assistenza umanitaria.

Hanno letto l’ultimo rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, secondo cui nei primi sei mesi del 2021 ci sono state 5.183 vittime civili, tra morti (1659) e feriti (3524), il 47 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Eppure quei ministri vogliono continuare i rimpatri. Il portavoce della Commissione, Adalbert Janhz, ha confermato la ricezione della lettera, ricordando che «la decisione è nazionale».

Tanto che la Germania, dopo averlo rimandato per tre volte, tra qualche ora potrebbe dare il via libera al volo di rimpatrio di alcuni afghani. Tornerebbero in un Paese in guerra.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]

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