Afghanistan. La strage a Kabul insidia anche la «stabilità» talebana
La strage manda inesorabilmente un «messaggio» che va molto oltre i confini del paese e annuncia una logica escalatoria ben distinta dai proclami rassicuranti delle ultime settimane. Ricalca la strategia dei miliziani rivali del califfato
La prime bombe sotto l’Emirato Islamico subentrato all’effimera Repubblica Islamica, dilaniano un’umanità inerme e in fuga, umiliata nel canale di scolo dell’aeroporto di Kabul nell’incerta attesa di un controllo di documenti misericordioso.
Le bombe investono pesantemente i militari occidentali, gli americani in primis, mentre imbarcano se stessi e i loro moderni mezzi. Colpiscono, da ultime, anche le unità scelte dei Taliban.
Quelle mandate a «mettere in sicurezza» il perimetro dello scalo sotto gli occhi delle telecamere di tutto il mondo. Mai attentato era stato più annunciato: una ridda di voci, di «presto, sgomberare che sta arrivando», un crescendo fra gli spari.
I significati si condensano fino ad implodere, offrendo al jihadismo un palcoscenico irresistibile: la logica più scoperta degli eventi punta il dito sullo Stato Islamico – Provincia del Khorasan, ovvero la branca afghana di Daesh, che come previsto colpisce alla prima opportunità, perseguendo l’obiettivo di far saltare ogni patto e scomporre ogni quadro.
Ma se le bombe servono anche a spostare gli equilibri, il quadro a Kabul è oggi più che mai fluido: lo stesso ex premier Hamid Karzai, a cui l’aeroporto è intitolato, in questi giorni rappresentato come uno dei perni del negoziato per un governo nazionale a più ampie intese, si trova agli arresti domiciliari.
E DUNQUE, PASSANDO al vaglio condizioni permissive e sospetti più espliciti, si possono considerare anche le rivalità interne al fronte talebano, possibili connivenze fra le fazioni più agguerrite ed ambiziose, la volontà di mandare un messaggio che affretta gli sviluppi e comunica, a chi deve capirlo, chi può fare cosa con i mezzi che meglio conosce.
Il tutto ricordando che la sicurezza di Kabul è stata presa in mano nientemeno che dalla rete Haqqani, i terroristi per antonomasia, responsabili in questi anni delle peggiori carneficine proprio nelle città. Resta il fatto che, dopo 20 anni dalla loro cacciata e 250 mila morti, il risultato più importante che i Taliban hanno mostrato di aver conseguito nella rapida campagna di conquista delle città è stato il superamento dei confini del mondo pashtun, a cui la loro parabola è storicamente legata: l’Emirato rinasce mano a mano che, attraverso inedite alleanze locali, i combattenti inturbanati si mostrano in grado di comporre un quadro nazionale – investendo con duttilità tattica e spregiudicatezza sul superamento di vecchie divisioni.
LA CARNEFICINA DI IERI, invece, annuncia una logica escalatoria ben distinta rispetto ai proclami rassicuranti delle ultime settimane, e per certi versi opposta. Essa ricalca la strategia perseguita dai miliziani rivali fedeli al califfato, che è ovunque plasticamente la stessa: inserirsi nello scontro, colpire nel mezzo, far saltare il quadro politico in formazione, puntando alla scomposizione del tessuto sociale, etnico e religioso: da qui, per esempio, le bombe rivolte invariabilmente contro la minoranza hazara e gli sciiti.
L’islamologo Olivier Roy ha sostenuto in questi giorni come sia nell’interesse dei Taliban prendere le distanze dalle ideologie jihadiste, aspirando al riconoscimento internazionale grazie a relazioni costruttive con regimi autoritari (Cina, Russia, Iran, ma anche i filo-occidentali Pakistan e Turchia) mentre asseriscono il monopolio del potere: quel potere perduto nel 2001 per aver concesso spazio alla ‘base’ (al Qaida) di Osama bin Laden.
TUTTAVIA, L’AFGHANISTAN non galleggia nel vuoto. In primo luogo, le città non sono le periferie o le campagne, mostratesi fiduciose o rassegnate verso i Taliban. Esse vanno governate: le testimonianze arrivate dai paraggi dell’ospedale di Emergency, dove è arrivata ieri una sessantina di feriti, con i cittadini di Kabul a dirigere il traffico mentre i Taliban passano armati in macchina e tirano oltre, ci dicono molto di una concezione del potere, del governo e dei servizi che spesso accomuna le milizie jihadiste pervenute al potere, scontrandosi con la propria incapacità di amministrare oltre l’ambito dell’interpretazione e dell’applicazione della legge (la risoluzione delle dispute).
In secondo luogo, esiste un arco di insorgenza jihadista che va dall’Africa (il Sahel, ma anche Somalia, Mozambico) fino alle propaggini orientali dell’Asia, rispetto al quale l’Afghanistan non è un semplice pezzo di un mosaico, ma un punto preciso di irradiazione di genealogie combattenti e di correnti ideologiche fra loro in conflitto.
Volendo semplificare all’osso, si può dire che per una serie di circostanze storiche abbastanza evidenti, rispetto alle quali l’azione dell’occidente democratico, liberale e armato è tutt’altro che estraneo, è in atto un confronto, o più spesso un conflitto piuttosto aperto, fra diverse interpretazioni del rapporto fra religione islamica e politica: nelle sue diverse varianti, che sono a diverso titolo influenzate dal pensiero di Abdallah Azzam (il chierico sunnita che convinse bin Laden a insediarsi in Afghanistan) il ritorno dell’emirato, la forma politica distintiva del pensiero jihadista, manda inesorabilmente un messaggio molto oltre i confini del paese. Il futuro dell’Emirato non è immaginabile senza relazione con l’immaginario di questa costellazione jihadista, per quanto essa sia segnata da intese, rivalità e inimicizie.
Nella logica di un ritorno degli attentati dunque, è iscritta una modalità con cui il mondo jihadista intende relazionarsi con il segmento urbano, istruito, dissidente (infedele) della popolazione, e – con questa – la difficoltà con cui il mondo talebano si districa dalla propria storia e dalla propria immagine.
SULLO SFONDO C’È lo story-telling delle grandi potenze, a partire dalla auto-evidenza con cui il dibattito sulla politica estera statunitense distingue fra counter-terrorism e rivalità fra potenze, come se si trattasse di due ambiti politici ontologicamente diversi e non comunicanti.
Votatisi al ritiro entro maggio con Trump, gli Stati Uniti di Biden hanno inizialmente esteso la scadenza all’11 settembre: un gesto autocompiaciuto, nato dalla convinzione di poter vendere una facile narrazione di successo e missione compiuta. Salvo poi capire che il corrotto governo afghano che hanno per anni mantenuto in vita non avrebbe retto, e dunque anticipare la data al 31.
Ora, con il personale internazionale nei bunker dell’aeroporto, la superpotenza che ha aperto la Guerra al Terrore si trova a fare i conti con le proprie stesse scadenze e con le immagini di sé che esse proiettano, cercando di mostrare competenza operativa mentre piange i propri militari e nei canali di scolo dell’aeroporto scorre il sangue di chi aspettava un cenno per saltare oltre il fossato e lasciarsi dietro questo incubo.
* Fonte: Francesco Strazzari, il manifesto
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