by Testimoni di GeNova | 21 Luglio 2021 7:30
Genova, 20 anni fa. Come eravamo e dove andiamo. Dal dossier n. 3/2001 dell’agenzia Testimoni di GeNova. Intervista a Aldo Bonomi, direttore Istituto AASTER
Aldo Bonomi ha fondato e dirige l’Istituto di ricerca AASTER (www.aaster.it[1]). Tra i principali collaboratori di Giuseppe De Rita e del CNEL, interviene spesso sulle colonne del Corriere della Sera – economia, ma anche su DeriveApprodi e riviste considerate “di movimento”. Saggista assai prolifico, ha spesso anticipato letture su nuove composizioni sociali e produttive. Tra i suoi libri: Il capitalismo molecolare – La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi; Il trionfo della moltitudine – Forme e conflitti nella società che viene, Bollati Boringhieri; con De Rita, Manifesto per lo sviluppo locale, Bollati Boringhieri; Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri. Non di rado le sue tesi e interpretazioni aprono dibattito e suscitano polemica. Mai scontate e dunque utili. Anche e specialmente quando rompono comodi stereotipi o analisi superficiali. Come quelle correnti sul movimento.
Genova, Perugia-Assisi, con in mezzo l’11 settembre e, come hai scritto nell’editoriale del Corriere-economia del 24 settembre, la fine della Belle epoque, della “globalizzazione dolce”. Ma, guardando al “popolo di Genova”, e all’onda lunga di Seattle è appropriata la definizione di movimento?
Sia dal punto di vista politico che da quello squisitamente sociologico, a mio giudizio, la definizione di movimento è decisamente impropria: rimanda a una categoria tutta novecentesca. Nell’ultimo dopoguerra, ma soprattutto dopo il ’68, a partire dalle forme tradizionali di composizione di classe, che erano poi fondamentalmente l’operaio-massa e i suoi aggregati, a un certo punto si delinea una forma spuria che ci siamo abituati a chiamare “movimento”, variamente inteso dal punto di vista politico. Era la sintesi di ciò che avveniva dentro le mura delle fabbriche, dove c’era la classe operaia, e fuori dalle mura, sul territorio. Da lì, insomma, nasce, cresce e aggrega l’operaio sociale.
Quello che è apparso, da Seattle in avanti, non è una categoria ascrivibile a questo percorso e a quelle composizioni. Quello che viene avanti adesso è una cosa che non so denominare, se non come un percorso forte che viene dai processi di civilizzazione e non più dai processi di kultur (macrocategorie novecentesche). Le parole d’ordine non sono più quelle del Novecento, producono pochissima discriminante politica. C’è forse qualcuno per la fame nel mondo? Qualsiasi essere umano, che riconosce il fatto di essere un essere umano, riconosce che l’altro da sé ha diritto a mangiare, alla tutela della salute, a un ambiente eco-compatibile.
Quello che viene avanti non è il “primo popolo”, il tessuto della militanza novecentesca, che può essere assunto attraverso la forma partito o attraverso quella dei portavoce, di cui è comunque una forma dolce. Non porrei attenzione al primo popolo, che interpreta il secondo o rappresenta la moltitudine, ma piuttosto farei attenzione al secondo popolo e alla moltitudine. È questo il fatto nuovo di Genova.
Ma cos’è, chi compone questo “secondo popolo”?
Il secondo popolo sono le forme nuove di espressione culturale e politica, micro-comunità locali che stanno sul volontariato, sulle parrocchie, nell’azione locale ambientalista; è questo che si è mobilitato. Rispetto al Nord-est, non c’è dubbio che molti sono stati mobilitati a partire dalla rete dei centri sociali, ma se ne facciamo un problema di numeri, è certamente la mobilitazione più interessante, più innovativa, dalle tante micro-parrocchie, micro-associazioni che hanno preso il pullman e sono andate a Genova in nome di grandi principi umanitari e non in nome di uno scontro tra l’impero e la moltitudine. Questo è il secondo popolo che si è reso evidente a Genova, che si è mobilitato, che è cresciuto dentro le società occidentali. È fatto di azione locale, di volontariato, di comunità, di attenzione e intervento sui problemi della salute, degli immigrati. Temi che nella globalizzazione ci appaiono drammaticamente irrisolvibili, mentre diventano affrontabili attraverso un rapporto con l’altro da sé e con la comunità.
Sarebbe il passaggio dalla «estenuata figura del militante a quella, ancora incerta e vacillante, del Volontario», di cui parla Marco Revelli.
Il militante era questo: colui che partendo da interessi materiali, coniugava le passioni. Qui si parte molto spesso non dagli interessi materiali, ma dalle passioni, dal sentire. Il secondo popolo è un popolo che sente, più che un popolo che si rappresenta per interesse, che sente il problema dell’ambiente, dell’immigrato, della sua identità, della salute, che sente le grandi parole d’ordine universali. Genova è stata anche l’espressione della moltitudine, intendendo con essa la classe senza un’identità precisa. La moltitudine nella società occidentale, nell’era moderna, per la prima volta è venuta avanti una nuova composizione sociale che non nasce dentro il discorso della produzione di fabbrica, ma in un discorso di produzione diffusa e quindi, lo dico con ironia, non mi ha meravigliato che a un certo punto, nella cronaca tremenda che c’è stata dopo Genova, a un certo punto, si scoprisse che attorno a quel gippone c’era uno che si chiamava “il commercialista”, il barista, uno che aveva il negozio. È la nuova moltitudine nella scomposizione sociale avvenuta che ovviamente si mobilita rispetto a questa. Effettivamente, se devo dare un giudizio, è questa civilizzazione che viene avanti. Ma pensare che il secondo popolo e la moltitudine siano piegabili a un primo popolo che li interpreta con le categorie del ‘900 mi sembra una cosa sbagliata.
In questa lettura manca però il contenuto caratterizzante contro il neoliberismo, che pure anima anche il “secondo popolo”. Questo non rimanda comunque, se non altro in diverse latitudini, a un conflitto forte, novecentesco se vogliamo, che muove da interessi antagonistici? Inoltre, i 300.000 di Genova sono gli stessi 300.000 di Perugia?
La rete di mobilitazione è la stessa, è una rete da secondo popolo. La marcia Perugia-Assisi, poi, è stato segnata da questo confronto dentro il primo popolo, (se ha ragione D’Alema o ha ragione la Turco o ha ragione Fassino o Bertinotti), che è la cosa di minore interesse, un problema che sente solo chi sta dentro queste culture, perché il secondo popolo era lì per dire che era per la pace, come era a Genova per dire che era contro la globalizzazione. Cercare di ricondurre queste cose alle categorie della politica del ‘900 è un disastro. Certo, capisco che abbiamo partiti e ceti politici senza più composizione sociale di riferimento, non c’è dubbio, ma credo che bisogna abituarvisi. Il problema, in termini teorici, è la perdita del soggetto, ma, appunto, dobbiamo abituarci. Per tutto il ‘900 il modello produttivo di riferimento produceva la sua composizione sociale antagonista. Ora, la globalizzazione dissolve la composizione sociale, la distrugge, non la crea. E così la new economy non significa new society. La globalizzazione distrugge comunità locale e meccanismi di aggregazione, è basata sul rapporto tra grandi processi globali e l’individuo.
Perdita del soggetto significa anche fine della politica? Bisogna rinunciare all’idea che vi possa essere, oltre e pur a partire dalle pratiche locali, sociali e di comunità, una capacità di trasformazione generale? Il “secondo popolo” è condannato a una funzione curativa o ancillare, o non può invece diventare soggetto e motore di una “nuova politica”?
La nuova politica significa essenzialmente ripartire dall’uomo, dalla persona e non da categorie di classe e di società, perché il vero problema che viene posto sul terreno è l’uomo con i suoi diritti. L’unica parola d’ordine, se uno la vuole trovare, è di chi dice non di essere contro la globalizzazione, bensì che all’interno della globalizzazione bisogna avere la globalizzazione della solidarietà, dei diritti, delle opportunità. Questa è la questione elementare, posta dal punto di vista politico. Qui il secondo popolo ha già una sua pratica. Il secondo popolo è cresciuto in questi anni con tanti momenti in cui in ogni singola città, in ogni singolo paese, ogni volta ci si è mobilitati per le cose minute (il problema dell’ambiente, della salute) che riguardano la vita quotidiana. C’è una pratica della mobilitazione. Poi ci sono dei momenti in cui questa pratica precipita dentro una serie di eventi spettacolari non creati dal movimento, ma dalla globalizzazione, che ha bisogno di legittimare se stessa (attraverso un processo di legittimazione dello stato-nazione facendo G7, G8). Questa è stata la produzione dell’“evento”. La civilizzazione è attenta a mobilitarsi su grandi tematiche che riguardano la cultura e la comunicazione. È diventata una merce, e tutti i momenti in cui ci sono eventi spettacolari, ci sono momenti di mobilitazione.
Insisto: questo secondo popolo è condannato a non avere pratica politica?
Credo che la fretta fa nascere i gattini ciechi. Questo secondo popolo è anche la moltitudine. Occorre considerare la discontinuità forte che c’è stata: dal fordismo al post-fordismo, e da quest’ultimo alla globalizzazione. C’è stata, usando un termine di De Martino, un’apocalisse culturale, molto a simile a quello che tra ‘800 e ‘900 è stato il passaggio dal mondo agricolo al capitalismo urbano industriale. Chi avrebbe pensato che quella moltitudine di pezzenti massacrata dai cannoni di Bava Beccaris, per intenderci, con la stessa violenza che c’è stata nel massacro di Genova, avrebbe poi elaborato al suo interno una grande capacità di auto-organizzazione? Da quella moltitudine di allora nacquero le leghe operaie e contadine per tutelare i propri diritti, le mutue per darsi solidarietà, le università popolari per darsi un linguaggio, nacquero tante forme di auto-organizzazione. Allora, sia riguardo al secondo popolo che alla moltitudine, bisogna lasciar crescere il loro linguaggio e le loro forme di auto-organizzazione, che embrionalmente sono già tante. E ha i suoi modelli, che si chiamano Gino Strada, si chiamano Medici senza frontiere. Questi sono i modelli e i saperi che vengono avanti.
Il nostro è un linguaggio datato, da questo punto di vista. Si può fare lo sforzo, come sociologi, come ricercatori sociali, di vedere la novità e quindi di interpretarla, ma le nostre pratiche sono sempre dentro i meccanismi amico-nemico, del conflitto. Invece viene avanti un linguaggio molteplice. Chi l’avrebbe mai detto che si sarebbe fatto mutualismo facendo professione, facendo impresa, consulenza.
La categoria del “mettersi in mezzo”, che hai usato sul “Corriere –economia” del 17 settembre, è centrale. Straordinariamente, ma forse non tanto, sembra la stessa di cui ha parlato il Cardinal Martini in un’intervista a “la Repubblica” del 24 settembre: «non parteggiare, mettersi in mezzo, disposti a soffrire».
Io sono stato tra quelli che, in una determinata fase storica, ha sostenuto: né con le BR né con lo Stato. Credo che proporre oggi la posizione “né con Bin Laden né con gli Stati Uniti” sia sbagliato e inutile. Bisogna invece mettersi in mezzo tra gli Stati Uniti e Bin Laden, tra i due fondamentalismi. Altrimenti prevalgono le logiche di un conflitto in cui perdiamo tutti. Questa è la mia logica del “mettersi in mezzo”. Del resto, il secondo popolo ha imparato da tempo a mettersi in mezzo. Basti pensare a quello straordinario laboratorio di tragedie che è stata la ex-Jugoslavia, alla Bosnia, che ha anticipato quello che sta accadendo. Il vero problema è che bisogna mettersi in mezzo tenendo presente che non è la dimensione del territorio, locale, la salvezza. Anzi, quello che sta venendo avanti, tutti i meccanismi di “sorvolo” (la potenza dei bombardamenti da una parte, e la geometrica potenza dell’abbattimento delle torri, dall’altra). Tu dici: io non sto con i sorvolatori del mondo, che stanno sui simboli, sugli eventi. Sto sui processi. Quando stai sui processi, vai sul territorio. Però: attenzione. Non ritengo che il territorio risolva i problemi. Perché qui ci sono le comunità malate, la comunità maledetta, in cui il sangue, il suolo e le religioni vengono usati per confliggere contro l’altro da sé. Il vero problema è stare sul territorio e mettersi in mezzo. La cultura del secondo popolo ci aiuta a metterci in mezzo. L’unica alternativa che mi sento di citare è l’esperienza di queste “agenzie per la democrazia locale” della ex-Jugoslavia fatte da Michele Nardelli. Credo che sia importante fare la democrazia locale, perché la democrazia significa educarsi alle forme di convivenza, alle forme dei conflitti sociali per far crescere il processo. La marcia di Assisi è un’occasione per mettersi in mezzo, non per dire che siamo contro gli americani. E con chi? Semmai, né contro Bin Laden né contro gli americani. Ci sono tanti momenti della nostra vita quotidiana in cui ci dobbiamo mettere in mezzo. Vogliamo metterci in mezzo al clima che sta salendo a Torino, ad esempio, tra l’imam, la comunità mussulmana e la sana piemontesità? Non dobbiamo solo metterci in mezzo rispetto a quello che sta succedendo in Afghanistan. Il mettersi in mezzo, in fondo, è quello a cui fa riferimento Massimo Cacciari, fare il “federalismo” dal punto di vista della globalizzazione, cioè partendo dalla specificità di cultura, di storia, di produzione, di etnie, si costruisce un mondo a geometria variabile in cui non c’è il principe e i sudditi, non c’è l’impero e la moltitudine. Lo scontro fra culture non avviene solo in Afghanistan, avviene a Porta Palazzo, perché la globalizzazione è un processo che ti entra dentro nel quotidiano. (sergio segio)
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