by Sergio Segio * | 2 Luglio 2021 7:08
Nessuno pare preoccuparsi del fatto che dei 300 poliziotti partecipanti alla spedizione punitiva ne siano stati individuati solo 52. Intanto, tutti diventano improvvisamente garantisti, indicano il dito della privacy e oscurano l’evidenza della luna della violenza sistematica nelle carceri
Le mele marce che hanno partecipato alla spedizione punitiva che, secondo la locale Procura, ha massacrato e torturato i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, erano circa 300. Non si ha notizia di mele sane che si siano rifiutate di partecipare, che abbiano tentato di impedire il pestaggio organizzato o che, non riuscendoci, abbiano poi denunciato l’accaduto.
Quella ora emersa con forza, ma in realtà da subito nota, è stata una rappresaglia contro centinaia di reclusi ristretti nel reparto Nilo che, il giorno precedente, avevano osato protestare, di fronte a un caso di Covid-19 e all’assenza di misure e strumenti di prevenzione del contagio nelle celle.
La gravità della vicenda era da subito emersa grazie – e solo grazie – alla denuncia del Garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello[1], che ha portato all’attivazione del magistrato di sorveglianza e a una inchiesta da parte del procuratore. Ciascuno di loro ha fatto con equilibrio il proprio onesto mestiere e dovere, istruendo passaggi e accertamenti che dovrebbero essere scontati e normali, ma che invece costituiscono l’eccezione.
Evidentemente non era stato così per la catena di comando, locale e nazionale, nell’amministrazione penitenziaria. E ancora di meno per la massima responsabilità politica, ovvero per quel ministero della Giustizia al tempo rappresentato da Alfonso Bonafede[2], che aveva liquidato gli avvenimenti con poche parole: «Doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità dell’intero reparto». Del resto, è quello stesso ministro che, in Senato[3], aveva dedicato ancora meno attenzione alla strage avvenuta durante o a seguito delle proteste del marzo 2020, sempre a seguito della disinformazione e disorganizzazione rispetto alla pandemia e ai rischi che ne conseguivano per chi era costretto in carcere. Dei 13 detenuti morti a Modena, Rieti e Bologna non fornì neppure i nomi. Bonafede è anche lo stesso ministro che, assieme all’allora collega al Viminale, Matteo Salvini, organizzò una trionfante esibizione propagandistica per rivendicare l’arresto del latitante Cesare Battisti, un video-spot irrituale e forse illecito che pure “la Repubblica” definì un «filmino inquietante[4]».
Matteo Salvini, a sua volta, è lo stesso, non più ministro del governo Conte ma pilastro dell’attuale governo Draghi, che ora si è precipitato davanti al carcere di Santa Maria Capua Vetere per solidarizzare con gli inquisiti per le torture.
Per la Procura di Santa Maria Capua Vetere[5] e il Giudice delle Indagini Preliminari il 6 aprile 2020 si era svolta una «orribile mattanza» contro detenuti inermi, tanto da emettere a oltre un anno di distanza 52 ordinanze di applicazione di misure cautelari ad altrettante persone per svariati e pesanti reati: molteplici torture pluriaggravate nei confronti di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, sino al falso in atto pubblico, la calunnia, il depistaggio.
Va annotato che nell’anno trascorso gli indagati hanno continuato tranquillamente a operare nei luoghi dove avrebbero commesso i crimini ora contestati. Con evidente rischio di inquinamento delle prove, se non di reiterazione dei reati. Ma ciò non ha ora impedito a opinionisti di specchiata fede garantista di lamentare l’inopportunità di provvedimenti cautelativi. C’è da chiedersi se, senza il clamore da essi suscitato, il ministero della Giustizia avrebbe finalmente deciso la sospensione dei 52 indagati e annunciato quell’indagine amministrativa che sarebbe stata opportuna e doverosa già all’indomani dei fatti.
Le accuse, certo, dovranno essere vagliate dal giudice e nel processo, come hanno tenuto subito a precisare i tanti garantisti, neofiti o di lungo corso, che hanno anche protestato per la violazione della privacy degli arrestati, avendo qualcuno pubblicato le loro fotografie.
Nessuno, pare, si è preoccupato del fatto che dei 300 partecipanti alla spedizione punitiva ne siano stati individuati, e almeno temporaneamente neutralizzati, solo 52.
Per le valutazioni che, intanto, ciascuno può fare, sono disponibili le trascrizioni dagli eloquenti messaggi che si erano scambiati gli accusati[6], nell’organizzare il pestaggio di massa contro i reclusi – non è stato risparmiato neppure Vincenzo Cacace[7], costretto su sedia a rotelle – o nel commentarlo, esaltati e appagati, in seguito. Pestaggio, torture e violenze ancor più inequivocabilmente documentate dal video[8] che solo il quotidiano “Domani” ha ritenuto di rilanciare subito con rilievo, chiamando gli avvenimenti del 6 aprile 2020 con il loro nome: spedizione punitiva.
Non così hanno fatto alcune altre testate, popolari e democratiche, che hanno dato la prima notizia dicendo o scrivendo di violenze avvenute durante «scontri con i detenuti». Evidentemente usando anche in quest’occasione come fonte privilegiata e oro colato i comunicati stampa dei sindacatini della polizia penitenziaria.
Come sempre succede quando le cronache vedono sotto accusa apparati dello Stato o uomini delle istituzioni, l’informazione scopre e pratica un garantismo rigoroso, ancorché a senso unico, l’uso dei condizionali, i toni garbati, i racconti sfumati, l’omissione dei dettagli e la rimozione dei precedenti, che siano la “macelleria messicana”, il massacro alla scuola Diaz e le torture nella caserma di polizia di Bolzaneto, «trasformata in un lager[9]» durante il G8 di Genova del luglio 2001 (governo Berlusconi II, ministro della Giustizia Roberto Castelli, ministro dell’Interno Claudio Scajola) o, ancora di più, le violenze contro i manifestanti che contestavano il Global Forum del 17 marzo 2001 (governo D’Alema II, ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, ministro dell’Interno Enzo Bianco), in alcuni casi torturati nella caserma Raniero persino dopo essere prelevati nelle corsie di ospedale a Napoli dove si erano recati per curare le ferite ricevute in piazza. Una vera e propria prova generale per Genova. O, per rimanere a casi ancor più simili a quello odierno, al massacro nel carcere san Sebastiano di Sassari[10] del 3 aprile 2000, regnante lo stesso Diliberto, il ministro istitutore dei GOM, famigerato reparto speciale operativo nelle carceri, e defenestratore dal vertice dell’amministrazione penitenziaria di un galantuomo – lui sì davvero garantista – come Alessandro Margara, inviso alla polizia penitenziaria.
In attesa che la giustizia “faccia il suo corso” e ratifichi le accuse contro poliziotti violenti e torturatori, come di rado avviene nonostante le evidenze (e nel ventennale di Genova andrebbe ricordato come, anzi, i violenti e depistatori più facilmente vengano premiati e promossi appena sopito lo scandalo e tornati i media alla consueta distrazione), o, come più spesso, si impantani in prescrizioni, come a Napoli, si stemperi in derubricazioni come a Genova o si vanifichi in archiviazioni, come a Modena. Quasi sempre l’esito è quell’impunità che è cemento dell’istituzione e premessa della reiterazione. Del resto, come ha detto uno dei torturatori di Santa Maria Capua Vetere al detenuto Antonio mentre lo sodomizzava con un manganello: «Lo Stato sono io[11]». E lo Stato non può che autoassolversi.
Ma aspettando, pur sempre fiduciosi, quel corso, si può comunque intanto avanzare la convinzione, storicamente fondata e quotidianamente confermata, che la violenza sia costitutiva dell’istituzione carcere: la violenza burocratica e quella fisica, quella legale e quella illegale, quella resa eccezionalmente visibile da qualche coraggioso testimone, Garante o magistrato e quella sommersa, vasta quanto un iceberg. Come ben sa chi davvero conosce quel mondo opaco e separato e le sue extraterritorialità. La «mattanza» di Santa Maria Capua Vetere ci dice allora che quella quotidiana e fondativa violenza non si può correggere o davvero limitare, ma solo abolire.
Sergio Segio, Comitato Verità e Giustizia per i morti in carcere
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