Nel Libano ferito, l’élite non molla: il miliardario Mikati diventa premier

by Pasquale Porciello * | 27 Luglio 2021 9:16

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Dopo la rinuncia di Hariri, la palla passa a uno degli uomini più influenti del paese, simbolo di quella classe dirigente contro cui il movimento popolare protesta da due anni. Promette riforme e lo sblocco dei finanziamenti di Macron, mentre il paese non ha quasi più elettricità

«Non ho la bacchetta magica e non posso fare miracoli, ma ho studiato a fondo la situazione e ho garanzie internazionali»: le primissime parole di Najib Mikati, classe ’55, miliardario libanese di Tripoli, primo ministro designato ieri dal presidente Aoun dopo le consultazioni iniziate in mattinata e terminate con 72 pareri positivi su 118.

Un nome di certo non nuovo: già ministro dei lavori pubblici e dei trasporti, due volte premier, capo del movimento Azm vicino agli Assad in passato, è uno degli uomini più ricchi, potenti e influenti del Libano. La nomina del neo-premier, sunnita come vuole la costituzione, uno dei bersagli della thaura (rivolta) cominciata il 17 ottobre 2019 contro la corruzione e l’inefficienza proprio di quella classe politica che ha portato il paese a dichiarare insolvenza, non sorprende.

Mikati, già nel 2011 indicato dal blocco 8 Marzo (Aoun-Hezbollah-Jumblatt) come premier, è una figura che sulla carta crea sicuramente meno problemi del rinunciatario Hariri. Obiettivo ora è la formazione di un governo che sostituisca quello del premier ad interim Diab, dimissionario dopo l’esplosione al porto di Beirut che il 4 agosto scorso aveva provocato oltre 200 vittime, 7mila feriti, migliaia di sfollati e distrutto mezza capitale.

Fallito dopo nove mesi il tentativo Hariri per l’inasprimento dei rapporti con il presidente Aoun e l’irrigidimento di entrambi sulle proprie posizioni (governo tecnico e eliminazione del potere di veto dei partiti per Hariri, governo politico per Aoun), Mikati ha da subito espresso la volontà di implementare l’iniziativa francese e formare un governo di non-partigiani che realizzi riforme – ancora imprecisate – che portino il paese fuori dal baratro e consentano l’accesso a fondi internazionali.

Macron, impegnato in primissima persona nella questione libanese, si era già fatto garante della ripresa del paese su cui ha investito in termini sia di prestigio personale che di politica estera, con l’intento forse di ricostituire in Libano lo storico avamposto francese in Medio Oriente.

In ogni caso non c’è tempo da perdere. Firass Abiad, direttore dell’ospedale universitario Rafiq Hariri, non ha usato mezze misure sulla totale inadeguatezza del paese ad affrontare una nuova ondata di contagi da Covid. Mancano anche i medicinali più essenziali e i continui tagli all’elettricità provocati dalla crisi del petrolio, che lasciano la popolazione civile senza luce per ore durante la giornata, presto potrebbero riguardare anche gli ospedali.

L’inflazione resta altissima e i prezzi proibitivi per chi non ha accesso al dollaro, nonostante la lieve ripresa al mercato nero della lira (da 22 a 18mila) agganciata al dollaro a un tasso fisso di 1.507. Se da un lato Mikati rappresenta proprio quell’establishment che la thaura voleva debellare, dall’altro il Libano si trova in quella condizione triste per cui qualunque soluzione è meglio del niente che ha bloccato il paese per mesi.

* Fonte: Pasquale Porciello, il manifesto[1]

 

 

ph by World Economic Forum from Cologny, Switzerland, CC BY-SA 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/2.0>, via Wikimedia Commons

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