Migranti. Amnesty International racconta l’orrore dei prigionieri nella «Nuova Libia»
Mediterraneo. Il rapporto di Amnesty International: le violazioni dei diritti non si sono mai fermate
«La gente è scappata. Ma la polizia ha cominciato a sparare in aria. Sono stato catturato e torturato dalla polizia». «Picchiano le persone ogni singolo giorno per ottenere soldi, ti danno una piccola quantità di cibo e poi ti fanno telefonare ai tuoi amici perché possano sentire che piangi». «Ho detto alla guardia che ero incinta, così ho fatto pipì fuori dalla cella. Lui ha usato un grosso bastone per rompermi la gamba. Non ho potuto camminare per una settimana. Piangevo tutto il tempo». È questo sistema che la Camera del parlamento italiano ha rifinanziato ieri votando la scheda 48 del decreto missioni, quella libica.
I RACCONTI DELL’ORRORE dei centri di prigionia sono ormai noti a tutti, ma c’è un aspetto importante del rapporto pubblicato ieri da Amnesty International con il titolo: Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia. Attraverso le testimonianze di 53 migranti, le interviste a operatori e agenzie umanitarie e l’analisi di video e foto relativamente al periodo gennaio 2020-giugno 2021, l’Ong dà due schiaffi con un colpo. Il primo a quelle forze politiche (Iv, Pd, M5S) che lo scorso anno avevano celebrato solennemente l’approvazione, insieme all’annuale rifinanziamento della missione, di un ordine del giorno per impegnare il governo a migliorare la situazione dei diritti umani sull’altra sponda del Mediterraneo. Il secondo a chi dal giorno dell’insediamento del nuovo governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dbeibah (15/03/2021) tesse le lodi della «Nuova Libia», terra in via di pacificazione e fervente attesa di investitori stranieri, soprattutto italiani.
«LE PROVE delle violazioni in corso e dell’impunità goduta dagli ufficiali del Dcim e dai membri delle potenti milizie smentiscono che la formalizzazione o centralizzazione della detenzione in Libia stia migliorando le condizioni per rifugiati e migranti», scrive Amnesty. Dcim sta per Direzione per la lotta alla migrazione illegale, organo che dipende dal ministero degli Interni. Le «orribili violazioni dei diritti umani», dunque, non sono state fermate né dal vecchio Odg del parlamento italiano, né dal nuovo governo libico. Anzi, la situazione è per certi versi peggiorata.
PERCHÉ GRAZIE al sostegno economico, alla fornitura di mezzi, all’addestramento di uomini e alla ricezione continua di informazioni dalle autorità e dagli assetti europei la sedicente «guardia costiera libica» cattura sempre più persone: 15.330 nei primi sei mesi del 2021, il triplo delle 5.476 dello stesso periodo 2020 (dati Oim). Dopo essere stati catturati in mare, i migranti sono fatti prigionieri: la legge libica punisce con la detenzione a tempo indeterminato chi entra o esce illegalmente dal paese. Così servono più strutture detentive. Il rapporto documenta la nascita di nuove prigioni «ufficiali» che in realtà sono vecchi centri informali passati dalle mani delle milizie a quelle del Dcim. La bandiera libica all’ingresso, però, non è garanzia del rispetto della dignità e della vita delle persone. Anche perché in luoghi «nominalmente in mano al ministero dell’Interno» le milizie locali continuano a esercitare totale controllo o grande influenza.
CI SONO POI I CASI di sliding door, come quello del direttore di Al-Mabani (in arabo: l’edificio): centro aperto nel 2021 e diventato il principale luogo di trasferimento delle persone sbarcate dopo le intercettazioni in mare. L’uomo, scrive Amnesty, aveva gestito la prigione di Tajoura (bombardata e poi chiusa) «che era famosa per torture e altri maltrattamenti, tra cui lavoro forzato, sfruttamento e morti in circostanze sospette». Sono almeno 7mila le persone passate da Al-Mabani. L’8 aprile scorso le guardie hanno aperto il fuoco dentro una cella, uccidendo un detenuto e ferendone altri. È uno dei tre centri in cui Medici Senza Frontiere ha chiuso il suo intervento tre settimane fa: «troppa violenza».
* Fonte: Giansandro Merli, il manifesto
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