by Giuliano Battiston * | 3 Luglio 2021 10:02
KABUL. Senza troppe fanfare, ieri i soldati statunitensi hanno lasciato definitivamente la base militare di Bagram, cuore nevralgico della guerra contro i Talebani e al-Qaeda per circa venti anni. Tre giorni prima, lo stesso hanno fatto i soldati italiani: la base militare di Herat è ora sotto il controllo degli afghani. Tutti i soldati italiani sono tornati a casa. Senza squilli di tromba, rulli di tamburo, pose muscolari e giornalisti embedded.
NON È PIÙ STAGIONE di rivendicare l’impegno militare. Il rischio è che qualcuno chieda un bilancio politico. Sono passati venti anni dall’inizio di un’invasione che è costata centinaia di migliaia di vite umane. C’è poco da celebrare. Tanto da riflettere. La guerra è chiusa, fallita, ma si evita di dirlo. L’offensiva militare lunga venti anni che avrebbe dovuto strappare il Paese dalle mani dei Talebani e riconsegnarlo al progresso democratico finisce con un basso profilo, alla chetichella. A metà aprile il presidente Usa Joe Biden ha annunciato che il ritito completo sarebbe avvenuto entro l’11 settembre. Subito dopo si è capito che i tempi erano più stretti.
Dipende da un’intesa informale con i Talebani, ai quali con l’accordo bilaterale di Doha del febbraio 2020 Washington aveva promesso il ritiro completo entro l’1 maggio. Poi il posticipo di Biden.
Dopo ampia discussione interna e un dibattito nella Rabhari Shura vinto dal leader supremo Haibatullah Akhundzada, i Talebani hanno accettato la rottura parziale dell’accordo, dicendo a Washington: toglietevi dai piedi entro la fine di luglio ed eviteremo di attaccare i vostri convogli sulla via del ritiro, così come i capoluoghi provinciali. Salvatevi la faccia, se potete. Ma non tardate oltre. Da giorni Washington evitare di aggiornare i dati percentuali su uomini e mezzi ritirati finora. Il ritiro completo è imminente. Questione di giorni. Rimarranno soltanto 650 soldati per garantire la sicurezza dell’ambasciata. I giochi sono fatti. Lo dimostra l’evacuazione di quello che è stato il cuore militare della guerra in Afghanistan: Bagram.
COSTRUITA negli anni Cinquanta dai sovietici, principale base logistica dell’occupazione militare russa negli anni Ottanta, poi in mano agli americani per la war on terror, Bagram è davvero un simbolo della guerra afghana. Qui si sono avvicendati gli ultimi presidenti degli Stati Uniti, tranne Joe Biden.
Qui hanno tenuto discorsi edificanti sui sacrifici compiuti dai soldati che portavano la democrazia con le armi. E qui a novembre 2019 è arrivato anche Donald Trump, che poche settimane prima, il 7 settembre, aveva fatto saltare all’ultimo momento la firma di uno storico accordo con i Talebani. È stato allora che è tornato sui suoi passi: l’accordo si farà. È stato firmato dopo pochi mesi, il 29 febbraio 2020. A causa di quell’accordo tra Talebani e Usa, il governo di Kabul, che pure non ne era firmatario, ha dovuto rilasciare 5,000 detenuti talebani. Molti dei quali proprio dal carcere di Bagram.
IL CARCERE DI BAGRAM, controllato dagli americani, ha fatto parte di quel sistema oscuro di abusi e impunità che ha contrassegnato tutta la guerra afghana e, più in generale, la war on terror. Lì infatti venivano trasferiti alcuni dei detenuti che, secondo testimonianze credibili, sarebbero stati torturati nei buchi neri gestiti dalla Cia in Afghanistan, come le prigioni segrete cosiddette di Salt Pit e Cobalt. I buchi neri hanno inghiottito la vita di tanti afghani ormai morti.
E di qualche sopravvissuto come Suleiman Abdullah Salim, un pescatore di Zanzibar, Tanzania. Sequestrato dalle forze di sicurezza keniane e dalla Cia nel marzo 2003 a Mogadiscio, in Somalia, dove lavorava, sottoposto a interrogatori feroci in Kenya, è finito poi nella prigione di Cobalt, nei pressi di Kabul. Brutalmente torturato, è stato trasferito nel maggio 2003 a Salt Pit, per 14 mesi, in isolamento. Nel luglio del 2004 è stato condotto nel carcere interno alla base aerea di Bagram. È stato rilasciato soltanto il 17 agosto 2008: «non pone alcun pericolo alle forze armate americane o ai loro interessi in Afghanistan».
PIÙ CHE LA CLINICA odontoiatrica, il Burger King o il Pizza Hut ospitati al suo interno nei «bei tempi» in cui ospitava fino a 100.000 soldati statunitensi, Bagram verrà ricordata per la sua prigione, temuta da tutti gli afghani e conosciuta come la Guantanamo afghana.
Anche qui sono avvenute torture, abusi, secondo un rapporto del Senato Usa e tanti altri rapporti e testimonianze credibili. Sono i risultati delle decisioni prese dall’ex segretario alla Difesa, Usa, Donald Rumsfeld. Morto due giorni fa, Rumsfeld è sempre stato convinto che la guerra afghana fosse una guerra giusta. E che si potesse vincere.
* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto[1]
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