Antitrust, l’Europa multa le case tedesche: «Fecero cartello antigreen»
Ancora un clamoroso scandalo per l’industria automobilistica tedesca. Cinque anni dopo il “Dieselgate” emerge il nuovo trucco made in Germany sulle emissioni di gas nocivi: questa volta non si tratta di centraline con il software manomesso ma del patto illegale fra i tre maggiori costruttori nazionali per limitare la concorrenza nella tecnologia di pulizia dei motori.
LO HA STABILITO IERI la Commissione Ue condannando Volkswagen, Bmw e Daimler a una maxi-multa di 875,2 milioni di euro per violazione della normativa europea antitrust. La sanzione più elevata, pari a 502,4 milioni, è a carico del colosso di Wolfsburg coinvolto con i marchi Vw, Audi e Porsche, dopo che Bruxelles ha ridotto la cifra del 45% per l’ammissione di colpevolezza del gruppo. La casa di Monaco, invece, dovrà pagare 372,8 milioni (dopo lo sconto del 10%) mentre Daimler se la caverà senza sborsare un singolo centesimo dei 727 milioni previsti perché l’azienda ha denunciato all’Ue l’accordo sottobanco.
«I tre costruttori avevano la tecnologia per ridurre le emissioni nocive oltre il limite previsto dalle norme vigenti ma hanno evitato qualunque concorrenza sull’utilizzo dei mezzi per pulire i gas di scarico. La decisione della Commissione è l’esempio di cosa accade quando ciò che avrebbe dovuto essere una legittima cooperazione tecnica viene distorta. Non tolleriamo che le aziende si mettano d’accordo in violazione della legge antitrust», riassume Margrethe Vestager, commissaria Ue alla concorrenza.
L’indagine sul cartello tedesco era iniziata nel luglio 2017 e si era conclusa a settembre 2018 con l’apertura ufficiale del fascicolo da parte di Bruxelles. Già allora erano emersi oltre cinque anni di incontri “tecnici” fra i manager dei tre gruppi con l’unico obiettivo di «limitare la competizione nello sviluppo dei metodi per ripulire le emissioni dei motori». In particolare, Bmw, Vw e Daimler avevano formato un vera e propria alleanza per imbrigliare lo sviluppo della tecnologia “AdBlue” basata sull’urea (l’agente riducente che viene aggiunto ai gas di scarico per assorbire l’ossigeno e limitare la formazione di NOx) concordando sia le dimensioni dei serbatoi per l’”AdBlue” che il consumo medio del composto chimico.
IN ALTRE PAROLE I COLOSSI dell’auto hanno rinunciato alla sfida industriale e commerciale fra loro preferendo accordarsi segretamente a danno dei clienti. «Le aziende incriminate avevano certamente il diritto di coordinarsi per sviluppare standard tecnici in comune e potevano cooperare in molti modi sulla qualità dei loro prodotti. Tuttavia non potevano mettersi d’accordo per fare esattamente il contrario. Il risultato è che il cartello ha negato ai consumatori europei la possibilità di acquistare veicoli con la migliore tecnologia disponibile», specifica la commissaria Vestager.
ALTRO CHE LIBERO MERCATO, dunque, piuttosto «comprensione reciproca che il consumo di AdBlue – e di conseguenza l’efficacia del sistema di pulizia dei gas nocivi – doveva essere limitato» come si legge nel fascicolo dell’antitrust europea. Da qui la comune adozione di piccoli serbatoi per l’agente chimico installati nei veicoli di cinque marchi dei tre gruppi.
Nonostante gli sconti a Vw e Bmw e l’amnistia totale per Daimler la sentenza della Commissione Ue rappresenta comunque un passo storico: per la prima volta viene sanzionato il trust di aziende incardinato sul blocco dello sviluppo tecnico e non sulla definizione del prezzo di vendita. Mentre l’industria automobilistica tedesca esce ancora una volta con l’immagine bruciata dai fumi dei magheggi illegali, tutt’altro che confinati al “Dieselgate”.
A meno di tre mesi dalle elezioni federali la questione diventa politica e non riguarda solo la Germania, come spiega l’eurodeputata dei Verdi, Jutta Paulus. «La multa dimostra che in questi anni l’industria automobilistica non si è comportata come doveva. Dopo lo scandalo del diesel truccato ora tocca all’AdBlue. Ma è un paradosso che l’Ue possa agire contro questa illegalità non grazie alla legge sull’ambiente ma in base alle norme sulla concorrenza».
* Fonte: Sebastiano Canetta, il manifesto
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