Pandemia e welfare, la protezione dei lavoratori europei di fronte alla crisi

Pandemia e welfare, la protezione dei lavoratori europei di fronte alla crisi

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Le politiche che riguardano l’occupazione e il sociale sono di competenza nazionale nella Ue, quindi la Commissione non interviene, se non con eventuali «raccomandazioni». Ma ultimamente, con la crisi post Covid, Bruxelles ha messo in atto un meccanismo per aiutare i paesi più colpiti ad assorbire lo choc, per favorire la creazione o l’estensione di dispositivi nazionali di protezione dei lavoratori: il programma Sure (Support to Mitigate Unemployment Risks in an Emergency), dotato di circa 100 miliardi e 18 paesi sono interessati, dalla Francia alla Polonia, passando per Italia, Spagna, Portogallo, Romania, Belgio, Grecia (non la Germania).

Nel periodo Covid ne hanno beneficiato 25-30 milioni di lavoratori nella Ue, 1,5-2,5 milioni di imprese hanno avuto accesso al programma, che prevede garanzie e prestiti (con rimborsi a lungo termine). Accanto a Sure, la Commissione ha messo in atto misure per il lavoro dei giovani, una «garanzia giovani», investimenti per formazione ecc., oltre a una riflessione più generale su una base comune di diritti sociali nella Ue.

Ma le politiche sociali restano nazionali. I paragoni sono quindi complicati. I paesi hanno generalmente messo in atto misure straordinarie, per evitare l’abbattersi della crisi sui lavoratori, con più o meno generosità. Il ricorso a meccanismi simili alla Cig italiana sono in corso in molti altri paesi, ognuno con le proprie specificità.

La Francia è il paese che è intervenuto più massicciamente, 12,5 milioni di lavoratori del settore privato sono stati pagati dallo stato grazie al Plan France Relance dotato di 100 miliardi e il meccanismo resta in vigore fino all’autunno per i settori ancora in crisi, mentre per gli altri da questo mese c’è una progressiva diminuzione della percentuale di rimborso dei salari. In Francia chomage partiel è un sistema alternativo ai licenziamenti, che sono esclusi se c’è stato ricorso all’Apdl (attività parziale di lunga durata), concesso nel caso di una perdita di almeno il 40% dell’attività, per una durata di 24 mesi: questo meccanismo ha evitato la disoccupazione di massa e il livello di reddito dei lavoratori è stato mantenuto (salari pagati fino al 100%), ma oggi la principale preoccupazione dei sindacati è per quello che succederà quando il meccanismo avrà fine e le imprese dovranno ricominciare a navigare nel mercato con le proprie forze.

L’intervento massiccio dello stato è stato accompagnato da alcuni vincoli, come l’obbligo per le imprese di impegnarsi a una diminuzione di emissioni di gas serra.

In Germania, il Kurzarbeit ha permesso di pagare i salari al 60% e più per certi settori e la fase eccezionale resta in vigore fino a fine anno. Qui i licenziamenti sono possibili nel periodo del Kurzarbeit solo per motivi diversi da quelli che hanno portato al lavoro parziale. La Cig in Olanda si chiama Now (1,2 e 3) e scatta dalla diminuzione del 20% di attività. I licenziamenti sono proibiti per Now 1 e Now 2, mentre sono possibili nel caso di Now 3, ma il datore di lavoro deve comunque impegnarsi ad aiutare il dipendente a trovare un altro posto di lavoro.
In Svezia il Korttdarbete, che scatta con la diminuzione del 20% dell’attività, non ha misure specifiche sui licenziamenti. In Spagna, l’Erte, che garantisce il 70% del salario, esclude i licenziamenti durante il periodo della sua applicazione e per 6 mesi dopo la ripresa dell’attività normale. In Portogallo i licenziamenti sono proibiti durante l’applicazione del dispositivo di protezione del lavoro e per i 60 giorni seguenti la sua fine e il ritorno alla normalità.

* Fonte: Anna Maria Merlo, il manifesto

 



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