Jugoslavia. 30 anni fa la fine della Federazione e la guerra favorita dall’Europa

by Tommaso Di Francesco * | 25 Giugno 2021 8:29

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Il 25 giugno del 1991 è una data memorabile. Da quel giorno infausto, con la proclamazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia dalla Federazione jugoslava – che aveva ancora un seggio all’Onu e un esercito unitario – , si apriva la voragine sanguinosa della guerra interetnica jugoslava. Una data che fa sentire la «barra del tempo», secondo Varlam Shalamov, che cambiò l’agenda del mondo. Iniziavano gli anni Novanta, precipitava la crisi nell’Urss, iniziava il conflitto in Iraq, si avviava dopo la caduta del Muro la riunificazione della Germania. E la guerra tornava nel Vecchio continente, nel sud-est dell’Europa, strategico ponte del confronto-scontro con l’Oriente.

Ora che si comincia a riconoscere quello che abbastanza isolato denunciava allora il manifesto, vale la pena raccontarne gli sviluppi decisivi.
La Federazione jugoslava era formazione storico-politica originalissima, dovuta anche alla straordinaria storia del movimento di massa partigiano che aveva liberato il Paese dall’occupazione nazi-fascista e dai regimi e forze locali ad esso collegati. Con la leadership di Tito il Paese era stato in equilibrio nella guerra fredda; dalla rottura con Stalin nel 1948 aveva costruito un suo collocamento internazionale promuovendo il Movimento dei Non Allineati; all’interno aveva avviato, pur sempre a partito unico, una forma di democrazia della rappresentanza, l’autogestione, piuttosto partecipata e popolare

La spina nel fianco restavano i diversi pesi economici, spesso mal distribuiti, dei Paesi componenti della Federazione. Per questo, dopo una unificazione sotto l’egida costituzionale della repubblica socialista, nel 1974 Tito e Kardely avevano apportato la modifica federale sostanziale dell’autonomia delle sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Serbia più due regioni autonome aggregate alla Serbia, il Kosovo a maggioranza albanese e la Vojvodina con forte presenza di una popolazione di origine ungherese). Dopo la morte di Tito nel 1980 il Paese entrò in una fibrillazione economica fortissima, ci fu il ricorso al Fondo monetario internazionale – che avrebbe presto richiesto la restituzione – vennero adottate misure di austerità e a partire dal 1985 cominciarono vaste proteste sociali e conflitti nei comparti produttivi (valga per tutti il caso dell’Agrokomerc).

Il clima non poteva non ripercuotersi sulla compagine del partito, la Lega dei comunisti, e sulla nuova struttura costituzionale che prevedeva in un suo articolo il diritto di veto sulle decisioni federali per ogni Repubblica.

Accadde proprio così nei Balcani e in anticipo – una antefatto premonitorio della storia non solo la deriva del passato – , quella che negli anni più recenti è stata ed è la crisi dell’Unione europea: una divisione dovuta alla crisi economica e sociale. Per la quale, di fronte ai nodi del bilancio statale le regioni più «ricche», come la Slovenia, posero il veto sulla condivisione dei costi della crisi verso le regioni più povere (Montenegro, Kosovo, Macedonia (l’unica quest’ultima grazie ad un accordo tra Milosevic e Kiro Gligorov a rimanere fuori dal conflitto almeno fino alla guerra civile intestina tra albanesi e slovo-macedoni).

L’espressione politica di questo incrinarsi dell’originario rapporto di solidarietà, di «fratellanza e unità», furono le prime elezioni multipartitiche del 1990 con l’emergere dei partiti nazionalisti e indipendentisti, ovunque – in Croazia si rese evidente la forza dei movimenti neo-ustascia anche grazie a massicci finanziamenti occidentali fatti in nome della «democrazia»; mentre in Serbia a fronte della prima crisi esplosa in Kosovo con le proteste sociali e dei dei minatori, andava in porto l’operazione di maquillace di Slobodan Milosevic, leader emergente della Lega che cavalcava in modo spregiudicato e irresponsabile il rinascente nazionalismo serbo.

L’Unione europea nasceva allora. Maastricht era un nome impronunciabile, ma il timore per le crisi esplosiva dell’Urss impegnò i Paesi europei ad una scelta importante: la Commissione Badinter decise che non si dovevano riconoscere proclamazioni di indipendenza fatte in modo unilaterale, con la violenza e nel disprezzo del metodo democratico. Ecco. L’Europa dal 25 giugno del 1991 fece tutto il contrario di quello che aveva deciso: riconobbe – in primis fu La Germania di Kohl e Gensher insieme al Vaticano del polacco Wojtyla – le indipendenze di Slovenia e Croazia che si erano dichiarate indipendenti sulla base di valori etnici: «La Slovenia è la patria degli sloveni» e la «Croazia è la patria dei croati» dichiaravano le prime costituzioni de nuovi Stati.

Via via tutti gli altri Stati della nuova Unione europea riconobbero queste indipendenze su base etnica, senza chiedersi che fine avrebbero fatto le popolazioni non slovene e non croate dentro Stati etnicamente puri. E infatti cominciarono le proclamazioni dei serbi in Croazia, nella Baranja e in Krajina. E questo aprì la voragine di quello che sarebbe stato il conflitto in Bosnia Erzegovina dove tutte le etnie e le religioni erano rappresentate.
È proprio così. L’Unione europea nasce e si costruisce specularmente a partire dalla distruzione della Federazione jugoslava.

Per una guerra dunque nella quale non è vero che non siamo intervenuti se non troppo tardi, ma che invece abbiamo contribuito a fare esplodere e della quale siamo co-responsabili insieme ai nazionalismi interni. È una responsabilità sanguinosa di centinaia di migliaia di vittime, di stragi, pulizia etnica, l’assedio di sarajevo, violenza sulle donne, tutti crimini per i quali apparecchiati Tribunali ad hoc hanno incolpato solo i criminali locali ma non ancora – e forse mai più – quelli internazionali. Perché anche qui la verità è stata il primo bersaglio della guerra intestina.
Si poteva fare diversamente? Eccome se si poteva. Di fronte ad una realtà jugoslava che vedeva ben19 nazionalità, almeno tre religioni (cristiano ortodossa, musulmana e cattolica) e quattro lingue ma dove al primo censimento del 1981 che chiedeva a quale etnia si apparteneva, milioni di persone si erano pure dichiarate solo «jugoslave», bisognava agire con saggezza intimando che quella area sarebbe entrata nell’Ue solo se avesse salvaguardato la sua unità.

L’Europa nascente – e non ancora gli Stati uniti in aperto disaccordo – fece tutto il contrario: fece intendere con i riconoscimenti delle indipendenze su base etnica, che quella realtà sarebbe entrata a pezzi e, anzi, doveva entrare solo se divisa. Non solo, ogni Stato europeo cominciò a sostenere una Repubblica contro l’altra (p.s. la Germania si schierò con Slovenia e Croazia, la Francia con la Serbia ecc.). Divide et impera, insomma. Così possiamo affermare che la costruzione unitaria dell’Ue avviene sulla distruzione della Federazione jugoslava.

Fu una iniziativa scellerata tutta europea, per la quale stavolta gli Stati uniti del segretario di Stato, il repubblicano James Baker e del grande inviato Cyrus Vance , preoccupati del crollo di un Paese cardine dell’equilibrio con l’Oriente e già alleato dell’Occidente per tutta la guerra fredda, provarono fino all’ultimo a contraddire la tendenza; ma poi con la presidenza Clinton tutto cambiò e gli Usa divennero sponsor di tutti i conflitti sul campo aprendo in Bosnia perfino all’arrivo di mujaheddin dall’Afghanistan e ai ripetuti interventi della Nato che finalmente trovava occasione di protagonismo; fino alla pace di carta di Dayton a fine ‘95 che altro non fu che una spartizione su base etnica.

La fotografia attuale degli staterelli nati dalla eterodeterminazione sanguinosa della Federazione jugoslava ci dice che nessuno di questi Paesi da solo ha un futuro. Non ce l’ha la Slovenia membro Ue alle prese con il leader Janez Jansa allora dissidente di Mladina e guida delle milizie che assaltarono senza pietà drappelli di soldati di leva jugoslavi, lo stesso che però ora è legato a Orban e le piazze in protesta lo chiamano «dittatore»; e che i conflitti sui confini tra staterelli restano (il Golfo di Pirano conteso tra Lubjana e Zagabria); che la crisi bosniaca, appesa alla spartizione, si riapre; che la questione albanese nell’area resta irrisolta, anche nella nuova entità della Macedonia del Nord; che la solitudine serba resta pericolosa; che il Kosovo è uno Stato impresentabile. Ma tutti o quasi hanno un nuovo fiammante bilancio della difesa: dopo il piccolo Montenegro, sono ormai tutti dentro la Nato o in ottica atlantica. La vogliamo chiamare espansione della democrazia liberale?

* Fonte: Tommaso Di Francesco, il manifesto[1]

 

foto: dirittiglobali.it

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