Afghanistan. I soldati italiani se ne vanno, le stragi restano

Afghanistan. I soldati italiani se ne vanno, le stragi restano

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KABUL. Nella base militare di Herat, Lorenzo Guerini ammaina la bandiera. Ce ne andiamo ma non vi abbandoniamo, assicura il ministro della Difesa italiano. A Kabul, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, si chiedono giustizia e protezione. «Siamo sotto attacco, il governo non ci ascolta: chiediamo alle Nazioni unite, a tutti i Paesi del mondo di fermare gli attentati contro la comunità hazara, di trovare i colpevoli».
MOHAMMAD HUSSEIN NAZARI ci accoglie sulla porta di casa, lungo una strada polverosa che sale sulla collina. Siamo nel quartiere occidentale di Dasht-e-Barchi. «Siamo sciiti, siamo hazara, vogliamo educare le nostre figlie e progredire. Per questo ci attaccano». Sul cancello in metallo, un ritratto commemora la figlia Rehana, 16 anni, studentessa alla scuola Sayed al-Shohada, a qualche centinaio di metri da casa sua.

Un mese fa, l’8 maggio, durante il Ramadan, un triplice attentato colpisce le studentesse che escono dalla scuola. «Erano le 4 e 30 del pomeriggio. In uscita c’erano 4.500 studenti e studentesse, 150 insegnanti, tra cui molti volontari», ci racconta Aqila Tavaqoli, già insegnante, preside dal 2012. «La prima macchina imbottita di esplosivo è saltata in aria a cento metri dall’ingresso della scuola».

FUORI, ANNERITE O SCHEGGIATE, le mura che costeggiano la scuola portano i segni della prima esplosione. «Poi, a distanza ravvicinata, altre due esplosioni». Tavaqoli racconta di aver provato inutilmente a chiamare polizia e ambulanze, dopo la prima. Di aver visto crescere intorno a sè le richieste, le urla, le corse affrettate, le chiamate. Il caos. Il vuoto. «Sono svenuta. Quando mi sono ripresa la scuola era vuota».

Fuori, residenti e genitori fronteggiano una strage. La preside sostiene che le vittime «sono 79, di cui 72 studentesse, i feriti 275, almeno 500 le ragazze con problemi psicologici». La lista ufficiale che otteniamo noi elenca 85 vittime, nomi, cognomi, classe e famiglia. Fuori dall’edificio principale della scuola, madri e padri sono in attesa, seduti su panche impolverate o in drappelli, al riparo dal sole.

Ci mostrano fogli bollati, attestati, tessere studentesche, diagnosi mediche, richieste di mutuo. Chiedono aiuto, spiegazioni. Le figlie sono rimaste ferite, ma i loro nomi non compaiono nelle liste di chi ha diritto all’assistenza. Oppure gli aiuti tardano ad arrivare.

ANCHE I SOCCORSI, ripetono tutti, sono arrivati in ritardo. Padri, madri, residenti, docenti, tutti qui hanno prestato aiuto, un mese fa. Trasportando feriti, raccogliendo i morti. «Non posso descrivere ciò che ho visto, è difficile da tollerare», prova a ricordare Mohammad Hussein Nazari, il padre di Rehana. Zaini, libri, astucci, scarpe spaiate, insanguinate. Corpi non più riconoscibili. «Continuavo a controllare i corpi in terra, uno dopo l’altro, a cercare le mie figlie». L’8 maggio scorso, alle 4 e mezzo del pomeriggio a uscire dalla scuola al-Shohada ci sono 4 figlie di Nazari.

«Un parente mi ha chiamato per dirmi che Habiba e Hakima erano salve, a casa con la madre». Poco dopo, «un altro mi avverte che anche Farzana era arrivata a casa». La quarta figlia, Rehana, non si trova. «L’ho cercata ovunque, per ore, di ospedale in ospedale, sempre più preoccupato». La ritrova all’ospedale Watan, lungo la via Shaheed Mazari. «L’ho dovuta riconoscere tra altri quindici corpi. Quindici studentesse. Tutte morte».

CHI LE ABBIA UCCISE, non è dato saperlo. «Talebani, Daesh, qualcun altro. Non sappiamo chi sia stato. Sappiamo che siamo un obiettivo. Vogliamo protezione», dichiara la preside Tavaqoli. La scuola è ancora chiusa. «Bisogna fare i conti con il trauma collettivo, con le difficoltà di tante ragazze e famiglie. C’è l’assistenza psicologica, ma non basta. Vogliamo riaprire, tornare a insegnare e imparare, ma prima servono garanzie sulla sicurezza», spiega. Sulle sue spalle, il futuro della scuola, i rapporti con le autorità, le famiglie che recriminano, quelle che spingono per la riapertura, quelle che temono.

Qui per gli hazara, la minoranza sciita perseguitata al tempo dell’Emirato islamico dei Talebani, oggi obiettivo della branca locale dello Stato islamico, è l’intero quartiere di Dasht-e-Barchi, l’intera comunità a essere sotto attacco. Su Twitter gli attivisti dell’ampia diaspora due giorni fa hanno chiesto #StopHazaraGenocide.

C’È CHI CRITICA LA DISTINZIONE: siamo tutte vittime, in Afghanistan. Mohammad Hussein Nazari, il padre di Rehana, lo sa. Più di 40 anni di guerra, 20 anni di quel conflitto che la bandiera ammainata da Guerini non chiude, hanno causato lutti in ogni famiglia. Senza distinzione. «Ma qui ci attaccano proprio in quanto hazara», sottolinea. Elenca gli obiettivi degli ultimi attentati nel quartiere, «moschee, ospedali, palestre, perfino i reparti maternità. Vogliono ucciderci nel grembo, prima che nasciamo». E scuole pubbliche come la Sayed al-Shohada, qui a Dasht-e-Barchi, a un’ora di auto dal centro, dalle ambasciate straniere in cui si preparano valigie e piani di evacuazione, dai ministeri, dall’Arg, il palazzo presidenziale. «Erano tutte studentesse, giovanissime. Non conoscevano violenza, cattiveria. Erano le più innocenti di tutta Kabul. Perché loro?».

 

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L’Italia si ritira, ma è difficile salvare la faccia

Missione incompiuta. È sfortunato, Guerini. Eredita il compito più difficile. Ai predecessori, negli anni passati, quello di rassicurare sui progressi, sui Talebani indeboliti, sconfitti, ridotti alla resa

Ieri, nella base militare di Herat, la cerimonia di ammaina bandiera del contingente italiano. La guerra afghana per «difendere la pace e la legalità internazionali» è chiusa, ma non viene meno il sostegno dell’Italia, ha assicurato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini.

Accompagnato e ripreso da 40 giornalisti embedded, Guerini ha ringraziato i soldati per aver saputo «cogliere le esigenze del popolo afgano e delle sue istituzioni che abbiamo accompagnato nel percorso di costruzione di un paese più sicuro, più libero e più democratico».

È sfortunato, Guerini. Eredita il compito più difficile. Ai predecessori, negli anni passati, quello di rassicurare sui progressi, sui Talebani indeboliti, sconfitti, ridotti alla resa. Di giustificare lo strumento della guerra di fronte ai cittadini di un Paese che per Costituzione la ripudia. Di chiedere, anno dopo anno, la messa in bilancio di milioni di euro per una guerra con obiettivi mutevoli: democrazia, diritti delle donne, lotta al terrorismo, protezione della popolazione.

A lui, ieri a Herat, dentro la base militare che per tanti anni è stato il centro delle attività del contingente italiano, a lungo responsabile di un’area – le province occidentali di Herat, Ghor, Farah, Badghis – mai del tutto ricondotta sotto il controllo governativo e oggi sotto scacco dei Talebani, il compito di chiudere la partita cercando di salvare la faccia.

Compito impossibile. Lo strumento della guerra ha fallito. Da un bel pezzo. Non ha portato stabilità e sicurezza, ma altra guerra, nuove vittime. Nei primi 3 mesi del 2021, secondo i dati resi pubblici ad aprile da Unama, la missione dell’Onu a Kabul, sono 573 i morti e 1210 i feriti, con un aumento complessivo del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020.

La bandiera ammainata a Herat simboleggia la fine della guerra italiana in Afghanistan, non della guerra afghana. Nel Paese si continua a combattere. Più di prima.

L’accordo bilaterale tra Talebani e Washington firmato a Doha nel febbraio 2020 ha messo fine al conflitto tra gli americani e la guerriglia in turbante nero. Non a quello tra Talebani e forze governative. La scelta dell’amministrazione Trump di accordarsi in modo bilaterale con i Talebani li ha rafforzati. Ne è uscito indebolito il governo, escluso dal tavolo delle trattative. Il successivo dialogo intra-afghano è partito squilibrato. Nelle mani dei Talebani, il riconoscimento di Washington, 5.000 detenuti liberati e il traguardo più ambito: il ritiro delle truppe straniere.

Con l’accordo di Doha, Trump prometteva ai Talebani di far fare le valigie a tutti i suoi soldati entro il 31 aprile 2021. Biden ha posticipato all’11 settembre. Ma le truppe potrebbero rientrare a casa prima. Ieri il generale Frank McKenzie, a capo del Centcom, ha dichiarato che «metà del ritiro è stato completato».

Anche quello dei soldati italiani è stato accelerato. Tutti si chiedono entro quando saranno «tutti a casa»: 4 luglio, metà luglio, settembre? Pochi chiedono un bilancio politico della guerra e cosa farà l’Italia per non abdicare alle proprie responsabilità verso l’Afghanistan.

* Fonte: Giuliano Battiston, il manifesto



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