Compleanno di Amnesty International: «tre prigionieri liberati al giorno per 60 anni»
Se si volesse spiegare in una scuola cosa è l’attivismo politico basterebbe un nome: Amnesty International. Un’organizzazione che nasce come social network ante litteram, trova lo start sulle pagine di un giornale europeo e festeggia il suo sessantesimo compleanno – oggi – orgogliosa «di aver contribuito a scarcerare tre prigionieri “di coscienza” al giorno per sessant’anni», come scandisce quasi emozionato il portavoce italiano Riccardo Noury presentando nell’auditorium del museo Maxxi di Roma le iniziative per questo anniversario. Tra esse, una nuova campagna di brand per trovare nuovi «punti di contatto tra attivisti, beneficiari, donatori e firmatari», un bellissimo spot celebrativo e il docufilm Candle in barbed wire, di Fabio Masi, autore di Blob, che sarà trasmesso il 3 giugno alle 23,15 su Raitre.
QUELLA CANDELA ACCESA nel filo spinato è il simbolo di Amnesty da quando il 28 maggio 1961 Peter Benenson, chiamando a raccolta l’opinione pubblica con un articolo sul The observer weekend, in difesa di un gruppo di studenti arrestati in Portogallo, sotto la dittatura di Salazar, per aver brindato alla libertà, diede di fatto vita al primo network mondiale. «Appello per l’amnistia», si chiamava il suo scritto. E da allora Amnesty, che ha sempre avuto un legame profondo con il mondo dell’informazione, ha fatto passare idealmente quella candela di mano in mano tra i «12 milioni di sostenitori, soci e attivisti presenti in buona parte degli Stati del mondo», come fosse una staffetta olimpionica.
Ma oggi, in una Europa nella quale il regime di Lukashenko può dirottare un aereo di linea che collega due città del nostro continente per sequestrare un giornalista, quelle varie generazioni di attivisti politici che costituiscono la rete di Amnesty international sanno che c’è ancora molto da fare. «Se abbiamo contribuito a scarcerare tre prigionieri al giorno, è pur vero – ammette Noury – che ogni giorno cinque persone nel mondo vengono arrestate per le loro idee».
NON A CASO, «questo anniversario vogliamo legarlo ad altre due importanti ricorrenze: i 20 anni dal G8 di Genova, con le sue ferite ancora aperte e la necessità di avere codici identificativi per le forze di polizia in servizio, e i 30 anni che Patrick Zaki compirà il 16 giugno», spiega ancora il portavoce italiano dell’organizzazione al pubblico dell’auditorium seduto tra le sagome di Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna detenuto da 16 mesi nelle fetide prigioni del dittatore Al-Sisi.
«CAMBIARE IL MONDO armandosi di una penna, non di un mitra», è l’obiettivo dell’organizzazione internazionale secondo la visione del suo portavoce che, proprio per questo, l’ha scelta dal 1980. Poco prima, nel 1977, Amnesty venne insignita di un Nobel per la Pace per la sua campagna contro la tortura. Nel 1984 finalmente la lotta di quelle attiviste e quegli attivisti viene ripagata dalla Convenzione contro la tortura e i trattamenti inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’Onu, pubblicata nell’89 sulla nostra Gazzetta ufficiale. Ci sono voluti altri 28 anni affinché il reato di tortura entrasse nel nostro ordinamento penale.
DI SUCCESSI ne hanno ottenuti molti altri, in questi sessant’anni, come per esempio la Convenzione delle Nazioni Unite sul commercio delle armi e l’abolizione della pena di morte in tre quarti del pianeta. Ma, come racconta ancora Noury, i risultati raggiunti con più soddisfazione sono testimoniati soprattutto dalle migliaia di lettere di ringraziamento di tutti coloro che hanno sentito, con Amnesty, di non essere stati lasciati soli.
LA SAGOMA DI ZAKI sta lì a ricordare che «protestare è un diritto umano», come afferma il presidente italiano dell’associazione Emanuele Russo. «Riteniamo – dice – che il mondo debba riscoprire il valore della protesta e del dissenso». Perché ci sono tre principi nella bibbia degli attivisti per i diritti umani e civili: «Per le idee non devi andare in galera; il corpo non si tocca; qualunque reato tu abbia commesso, la polizia non deve essere come o peggiore di te».
Quando sono entrato in Amnesty mi hanno insegnato che «noi lottiamo per la nostra estinzione», ricorda Russo. «E per uno che stava nel Wwf era un’idea strana. Ora però la sento mia».
* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto
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