Pandemia. Il ministro della Cultura: «Aprire gli stadi? Allora anche i concerti»
Gli intermittenti dello spettacolo: «La politica dei bonus è fallita, contro la crisi va trasformato il Welfare a cominciare da un reddito di base»
L’annuncio della riapertura al pubblico dello stadio Olimpico di Roma per gli Europei, fino a 16 mila persone, ha spinto gli sport come la pallavolo e la pallacanestro, oltre che il Coni, a chiedere: perché il calcio sì, e noi no? Se lo chiedono Gianni Petrucci e Giuseppe Manfredi, presidenti della federpallacanestro e della federvolley. E la musica? domandano i maggiori organizzatori dei concerti per i quali «è inaccettabile una possibile differenziazione di capienze Covid tra calcio e musica live» hanno sostenuto Roberto De Luca (Live Nation), Ferdinando Salzano (Friends&Partners), Clemente Zard (Vivo Concerti). Nella corsa a riaprire è reintervenuto ieri anche il ministro della cultura Dario Franceschini rispondendo a un’interrogazione presentata da ItaliaViva in un question time alla Camera: «Se aprono gli stadi per lo sport, si aprano i concerti e lo spettacolo dal vivo – ha detto – Le stesse regole dovrebbero riguardare i concerti e gli spettacoli negli stadi o in spazi analoghi. Le regole devono essere uguali per tutti».
FRANCESCHINI ha spiegato anche quali dovrebbero essere le regole della riapertura dello spettacolo. Al Comitato tecnico scientifico (Cts) tre giorni fa ha consegnato una lettera in cui prevede di ampliare la capienza dei locali. Ad oggi nella norma è prevista la possibilità di riaprire con il 20% dei posti di una sala al chiuso, al massimo 200 persone, e al massimo 400 persone all’aperto. Ho chiesto al Cts di poter passare al 50% della capienza, fino 500 persone al chiuso e fino a 1000 all’aperto, con la possibilità alle Regioni, come è stato l’anno scorso, di dare deroghe per luoghi particolari che consentano di avere una capienza maggiore, magari anche con misure di precauzione maggiore». A cominciare dal tampone obbligatorio nelle 48 ore precedenti che dovrebbe essere a carico dello stato. Sul tema c’è ancora confusione tra ipotesi e precisazioni.
PER IL PRESIDENTE dell’Agis Carlo Fontana, invece, non tutti gli spazi sono uguali. Bisogna ragionare a partire dall’agibilità di ciascuno. «Non ha senso parlare di 500, 1000, di numeri predeterminati – ha detto – ha senso parlare di numeri determinati di volta in volta dalle singole situazioni». A maggio si riaprirebbe nelle zone gialle, la richiesta dell’Agis è farlo anche in quelle arancioni. E poi c’è quella di riconoscere i »ristori» a chi si prende il rischio (epidemiologico oltre che di impresa) di riaprire. Lo scontro tra ipotesi diverse fa capire che la riapertura è in alto mare.
MENTRE la campagna vaccinale resta incerta per la carenza di materia prima, e la confusione sovranazionale tra blocchi e contratti malgestiti, di fatto non esiste ancora certezza se, quando e come dovrebbero avvenire le riaperture. In vista del «decreto imprese» da 40 miliardi il dibattito è dominato dai nuovi e inadeguati «ristori» alle imprese. Il fallimento dei bonus per i lavoratori, prodotto di un’idea corporativa e occasionale del Welfare, è passata in secondo piano. Gli intermittenti dello spettacolo lo hanno denunciato ieri occupando il Globe Theatre a Roma. Nel suo intervento Franceschini si è impegnato a cercare una «norma che introduca in maniera permanente alcune protezioni introdotte in emergenza e renda permanente la protezione del settore». In realtà non bastano «alcune» tutele, né solo per un unico settore. In questione è l’estensione senza vincoli del «reddito di cittadinanza» e la riforma universalistica degli ammortizzatori sociali per dipendenti, precari e partite Iva di cui si sta discutendo, con difficoltà, al ministero del lavoro. Nella pandemia che ha già prodotto un milione di poveri in più, e altrettanti disoccupati, si può «ripartire» rivoluzionando il Welfare.
* Fonte: Roberto Ciccarelli, il manifesto
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