Michael Sierra-Arévalo: «Abusi e omertà: il muro blu della polizia americana»

by Martino Mazzonis * | 29 Aprile 2021 11:33

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«Ho cominciato studiando le gang e, interagendo con gli agenti, sono rimasto colpito dalla ordinarietà delle persone con cui avevo a che fare: maschi bianchi che parlano dei figli, della macchina da cambiare, della partita di football, ma quando parlano di lavoro passano a omicidi e sparatorie. La morte di Michael Brown a Ferguson mi ha fatto pensare più e meglio al ruolo della polizia nella società contemporanea e a chiedermi: “Perché i poliziotti si comportano come fanno?”. Rispondere è necessario per immaginare una realtà diversa».

Michael Sierra-Arévalo è un sociologo all’Università del Texas e studia la polizia e i suoi comportamenti, uscendo in pattuglia e intervistando decine di poliziotti in tre città, che ha lasciato anonime per assicurarsi una maggior collaborazione da parte degli agenti. Con lui proviamo a entrare nella testa dei poliziotti.

Dai suoi lavori sembra di capire che le pattuglie abbiano in mente di essere perennemente soldati in territorio ostile.

Dall’accademia fino al giorno della pensione gli agenti imparano che la loro sicurezza e quella dei colleghi è la priorità numero uno e che il pericolo è sempre e ovunque in agguato. E così l’atteggiamento non cambia se una pattuglia viene chiamata a intervenire durante una sparatoria o a una festa rumorosa in uno studentato. Durante l’addestramento ti insegnano che ogni intervento va trattato come se la tua morte fosse dietro l’angolo. In parte questo dipende da un dato reale: l’insensato numero di armi in circolazione. Questo senso di accerchiamento accompagnato alla retorica del coraggio e del sacrificio contribuiscono a generare quello spirito di corpo che crea il «blue wall», il muro blu del silenzio di fronte agli abusi (un muro incrinatosi durante il processo per la morte di George Floyd, ndr).

Facciamo qualche esempio di questo atteggiamento che nei casi estremi porta all’uso eccessivo della forza.

Molti poliziotti ti diranno «non esiste una chiamata tranquilla». L’esempio perfetto sono i controlli alle auto, che in teoria vengono usati per far rispettare il codice della strada, ma in pratica sono usati come strumenti di indagine, raccolta di informazioni su altri reati. Si viene fermati per infrazioni risibili: se piove e non hai i tergicristalli in funzione, se c’è una cornice attorno alla targa, se la lucetta sopra la targa non funziona, se c’è qualcosa di appeso al retrovisore. Tutte queste sono ragioni per un controllo. Durante i fermi vedrete i poliziotti toccare il cofano della macchina per accertarsi che sia chiuso, in maniera tale che se dentro ci fosse un uomo armato, questi non potrebbe saltare fuori e sparare. Oppure per lasciare impronte sulla macchina per facilitare le indagini in caso di un loro ferimento. In strada li vedrete sempre di tre quarti rispetto alla persona con cui parlano, come pugili, in maniera da essere pronti a spingere, colpire. Normalmente hanno anche la fondina dal lato lontano dall’interlocutore, in maniera che questi non possa sfilare la pistola.

In che anni nasce questa cultura del pericolo costante?

L’istituzione della polizia in America nasce in un processo intrecciato indissolubilmente alla schiavitù. La polizia da una parte, le «classi pericolose» dall’altra (schiavi fuggiti, studenti contro la guerra in Vietnam, ecc), ma la questione razziale tende a rimanere sempre al centro. Ciò detto, credo che la retorica contemporanea nasca negli anni ’70, quando c’è per davvero un picco di poliziotti morti e poi con l’avvio della «War on drugs» negli anni ’80. La guerra al crimine, quella alla droga e infine quella al terrorismo producono la cultura contemporanea. Dagli anni ’70 in poi nasce anche l’industria della tattica di polizia: escono libri con nomi tipo Street survival, edito dalla Calibre press che organizza anche seminari e training. Se leggi quei libri ti convinci che la vita del poliziotto sia una sparatoria e una scazzottata continua. Quei libri sono il prodromo di corsi durante i quali vengono mostrati decine di video di poliziotti uccisi in servizio.

Perché le vittime sono così spesso le minoranze?

Con i poliziotti non si parla di razzismo: se vuoi averci a che fare come studioso non sollevare il tema, perché i canali di comunicazione si chiuderanno. Ma non c’è bisogno di formare a pensare che il crimine abbia una connotazione razziale, nella nostra società se parli del membro di una gang non ti viene in mente un diciassettenne bianco con una polo color pastello. Il sistema è disegnato in maniera tale – chi chiama la polizia, dove mandiamo le pattuglie – per cui il numero di interazioni con appartenenti alle minoranze è sproporzionato. Gli stereotipi relativi alle minoranze si rafforzano quando si arriva dopo una sparatoria e si trova il nero o il latino ferito, a prescindere da riflessioni sulla natura strutturale della situazione.

Come si esce da questa cultura?

Ci sono modi e strumenti per far crescere la fiducia reciproca, una delle cose che mancano. In certe comunità la polizia è un corpo estraneo e solo punitivo. Studi indicano come interazioni «normali» con i poliziotti cambino le cose. Alcuni poliziotti mi hanno parlato della fiducia come di un conto in banca sul quale investire: moltiplicare le interazioni e ascoltare. Usando quella metafora, il problema è che il conto non crescerà mai se oltre a investire, ritiri tutto il tempo compiendo azioni che quella fiducia la distruggono. Quante interazioni positive servono per ricostruire la fiducia persa quando un poliziotto spara a un ragazzino disarmato?

* Fonte: Martino Mazzonis, il manifesto[1]

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