Nel suo libro Siamo ancora in tempo! (Il Saggiatore), l’antropologo economico Jason Hickel individua la causa delle crisi nell’espansione perpetua del capitalismo che sta devastando il pianeta.
Abbiamo intervistato l’autore per comprendere meglio dinamiche e conseguenze del paradigma economico attuale e per approfondire la prospettiva di un mondo postcapitalista.
Nel suo libro «Siamo ancora in tempo!» lei scrive che possiamo ritrovare la causa della crisi ecologica nel dualismo di Cartesio: il mondo diviso in due, l’uomo separato dalla natura ai fini di dominarla, possederla. Può spiegare come questo meccanismo sia stato così profondamente interiorizzato e abbia, di conseguenza, prodotto prima il capitalismo e poi la crisi ecologica?
Per la maggior parte della storia umana, le persone hanno riconosciuto un’interdipendenza fondamentale tra l’uomo e il resto del mondo vivente. Rifiutavano ogni rigida separazione tra i due.
Di conseguenza, la maggior parte delle civiltà ha posto dei limiti culturali ed etici allo sfruttamento degli ecosistemi viventi. Questo cambiò intorno al ‘500, quando i primi capitalisti cercarono di distruggere queste credenze in favore di una nuova ontologia, o teoria dell’essere, dove solo gli uomini sono dei soggetti con spirito e facoltà d’azione, mentre la «natura» è mera materia – un oggetto da sfruttare e manipolare per i fini degli esseri umani. Questo divenne noto come dualismo. Queste idee preesistevano a Cartesio, ma Cartesio le ha formalizzate nella sua filosofia e sono poi diventate dominanti in Europa.
È difficile separare la storia del capitalismo dalla storia della filosofia dualista; le due cose sono nate insieme. Il dualismo era e rimane importante per il capitalismo, perché il capitalismo ha bisogno di trattare la natura come «esterna» a sé.
Ancora oggi usiamo esplicitamente il linguaggio dualista: parliamo di «esternalizzare» i costi – un’idea che è possibile solo perché crediamo, paradossalmente, che la natura sia in qualche modo esterna agli esseri umani. Non è sorprendente, dunque, che un tale sistema produrrebbe molto rapidamente una crisi ecologica estrema.
Il problema del capitalismo è quello che lei definisce il «culto della crescita», la ricerca della crescita fine a sé stessa. Anche la cosiddetta «crescita verde» è un problema, poiché presenta un paradosso e non può esistere. Qual è l’antidoto al culto della crescita?
Quando la gente pensa al capitalismo tende a pensare a cose come i mercati e il commercio. Naturalmente, i mercati e il commercio sono esistiti per migliaia di anni prima del capitalismo.
Ciò che distingue il capitalismo è che è organizzato intorno alla crescita perpetua e dipende da essa. È l’unico sistema economico nella storia umana che è intrinsecamente espansivo. Il problema della «crescita» è che è un termine propagandistico.
In realtà, ciò che accade di solito è un processo di estrazione, recinzione e mercificazione, che molto spesso danneggia le comunità umane e gli ecosistemi viventi. Tutto questo viene riconfezionato nel linguaggio della «crescita», che suona così coccoloso, naturale, e ovviamente positivo.
Chi, sano di mente, sarebbe contro la crescita? Di conseguenza, ci mettiamo tutti in fila per chiedere più crescita dove altrimenti non lo faremmo. Questo tipo di linguaggio è un ostacolo al pensiero. Dobbiamo essere chiari sulle cose che vogliamo effettivamente: una salute migliore, una migliore istruzione, salari più equi, alloggi accessibili, energia pulita. Dovremmo perseguire queste cose direttamente, piuttosto che far crescere ciecamente il Pil e sperare che questo in qualche modo ci aiuti magicamente a raggiungere i nostri obiettivi sociali.
Cosa risponderebbe a coloro che dicono: «Ma la crescita ci ha portato dove siamo, è la ragione del progresso umano, dell’aspettativa di vita più lunga, del benessere…»?
Sappiamo da studi empirici che non c’è una relazione causale tra la crescita del Pil e i risultati sociali. Infatti, oltre un certo punto – che le nazioni ad alto reddito hanno superato da tempo – anche la correlazione si interrompe.
Ciò che conta davvero è come le risorse e il reddito sono distribuiti. È chiaro, secondo dati storici, che i principali motori del progresso umano sono stati i movimenti sociali progressisti, che sono intervenuti per chiedere cose come servizi igienici pubblici universali, sanità, alloggi, salari equi, acqua pulita – molto spesso contro gli interessi della classe capitalista È possibile raggiungere livelli molto alti di sviluppo umano con livelli relativamente bassi di Pil.
Questo non dovrebbe sorprenderci perché, ancora una volta, il Pil non è una misura di «social provisioning» (valore d’uso) ma una misura della produzione di merci (valore di scambio). Dobbiamo riconoscere la differenza tra i due.
Lei individua un paradigma fondamentale del capitalismo: la crescita si è sempre fondata su sistemi di colonizzazione, ergo di oppressione. In che modo questo si collega a processi odierni come la «colonizzazione atmosferica» – un piccolo numero di nazioni ad alto reddito responsabile per quasi tutte le emissioni – e il patriarcato?
Spesso pensiamo al capitalismo e al colonialismo come separati, ma non lo sono – sono nati insieme nel ‘500. L’ascesa del capitalismo in Europa è dipesa completamente dall’appropriazione di risorse e lavoro dal Sud globale, compresa la schiavitù di massa e il traffico di esseri umani «sponsorizzato» dallo stato.
Il colonialismo può essere ufficialmente finito ma gli schemi coloniali di depredazione continuano ancora oggi. Pensate a chi produce i nostri smartphone e computer, chi coltiva il nostro caffè e tè e olio di palma, chi estrae il coltan e il litio che sono nei nostri dispositivi, chi cuce i nostri vestiti.
Possiamo vedere la stessa cosa quando si tratta di cambiamento climatico. Le nazioni ricche del Nord sono responsabili del 92% delle emissioni in eccesso rispetto al limite di sicurezza planetario. Hanno colonizzato l’atmosfera per il proprio arricchimento. Eppure il Sud soffre la maggior parte delle conseguenze.
Ancora una volta, il Sud è sacrificato per il bene della crescita del Nord. Se non prestiamo attenzione alle dimensioni coloniali della crisi ecologica, allora non stiamo centrando il punto.
Nella storia del capitalismo che lei traccia nel libro, la povertà è necessaria. A che cosa? E per chi?
In Europa, a partire dal ‘500, i primi capitalisti avevano bisogno di trovare un modo per ottenere masse di lavoro a basso costo. Per fare questo, hanno recintato le terre comuni e distrutto le economie di sussistenza in modo che la gente non avesse altro modo per sopravvivere che lavorare per salari bassi. Questo produsse una crisi di povertà di massa in Europa. All’epoca, le élite lo giustificarono dicendo che è solo quando le persone sono minacciate dalla fame che lavorano davvero duramente, quindi bisogna mantenere la povertà per alimentare i motori della produzione industriale. La stessa cosa è successa sotto il colonialismo.
In altre parole, per mantenere il capitalismo in funzione, è stata prodotta una scarsità artificiale. Questa è una delle ragioni per cui, nonostante la straordinaria crescita economica, la povertà di massa rimane un problema. Questo potrebbe sembrare un paradosso ma è perché il sistema in realtà dipende dal mantenere gran parte della popolazione mondiale in povertà.
Il capitalismo e la democrazia sono compatibili?
Tendiamo a pensare al capitalismo e alla democrazia come parte dello stesso pacchetto. Ma questo presupposto è stato messo in discussione negli ultimi anni.
Moltissime ricerche mostrano che quando le persone hanno un controllo democratico sulle decisioni economiche, scelgono di allocare il reddito in modo equo e scelgono di usare le risorse in modo sostenibile, mantenendole nel futuro anche se questo significa rinunciare al guadagno monetario a breve termine. In altre parole, le persone prendono decisioni che vanno contro gli interessi del capitalismo. Perché allora le nostre economie non funzionano così? Perché non abbiamo vere democrazie.
Lo scenario mediatico è colonizzato da corporazioni e oligarchi che limitano la portata del pensiero e del dibattito, e i nostri sistemi politici sono in mano a coloro che finanziano le campagne elettorali. In questo contesto, il capitalismo e la crescita non possono essere messi in discussione. Il capitalismo, in altre parole, ostacola la vera democrazia, così come la vera democrazia ostacola il capitalismo. Credo che dobbiamo riconoscere che queste due cose siano più in conflitto tra loro di quanto si pensi.
Secondo lei, una transizione energetica verso le rinnovabili è necessaria, ma non sufficiente. Cosa comporterebbe un percorso più completo?
Ci sono diversi problemi con gli attuali scenari di transizione verde.
Uno, è che non è possibile per noi decarbonizzare l’economia abbastanza velocemente per rimanere sotto 1,5 o 2 gradi se le nazioni ad alto reddito continuano ad utilizzare così tanta energia. Per rendere questi obiettivi fattibili, le nazioni ad alto reddito devono ridurre la domanda di energia in modo significativo. E il modo migliore per ridurre la domanda di energia è ridimensionare la produzione non necessaria. Questo è ciò che richiede la decrescita.
La seconda cosa, è che il cambiamento climatico non è l’unico problema esistenziale che affrontiamo. Siamo anche di fronte a una crisi di deforestazione, impoverimento del suolo ed estinzione di massa – problemi che sono causati da un uso eccessivo delle risorse.
L’uso delle risorse è strettamente legato alla crescita economica. Quindi, anche se possiamo immaginare di passare al 100% di energia rinnovabile, questo non affronta le altre dimensioni del collasso ecologico. Anche qui, le nazioni ad alto reddito hanno bisogno di ridurre l’uso in eccesso delle risorse.
Molte persone sono spaventate dal solo pensiero di un mondo postcapitalista. Lei vede un’economia postcapitalista come un’economia che non ha bisogno di crescita per sopravvivere. Come ci si arriva?
Siamo una cultura che celebra l’innovazione e il pensiero fuori dagli schemi ma, per qualche ragione, quando si tratta del nostro sistema economico, siamo convinti che il capitalismo sia l’unica opzione possibile e che non dovremmo nemmeno pensare a delle alternative.
Il capitalismo è un sistema del sedicesimo secolo che non è adatto al ventunesimo secolo. Possiamo e dobbiamo immaginare qualcosa di meglio.
Il principio di base di un’economia postcapitalista è che dovrebbe essere organizzata intorno al benessere umano e alla stabilità ecologica, piuttosto che intorno agli interessi del capitale e dell’accumulazione da parte delle élite.
Non è così difficile, in realtà. In Siamo ancora in tempo! ho delineato percorsi concreti e realistici per arrivare da qui a lì. È utopistico ma non irrealistico. Possiamo costruire movimenti politici con questo fine. In definitiva, «l’economia» è la relazione materiale che esiste tra noi e con il resto del mondo vivente.
Dobbiamo quindi chiederci: vogliamo che questa relazione sia basata sull’estrazione e lo sfruttamento oppure sulla reciprocità e la cura? La nostra sopravvivenza come specie dipende da come rispondiamo a questa domanda.
* Fonte:
il manifesto[1]