by Giansandro Merli * | 10 Aprile 2021 16:19
Un uomo ucciso e due ragazzi di 17 e 18 anni feriti dai colpi di pistola esplosi contro i migranti rinchiusi nel centro di detenzione libico di Al-Mabani, a Tripoli. È accaduto all’alba di giovedì 8 aprile e il bilancio sarebbe potuto essere ancora più grave perché le guardie hanno «aperto il fuoco indiscriminatamente all’interno delle celle». Lo ha denunciato ieri l’Ong Medici Senza Frontiere (Msf). Solo poche ore prima del gravissimo episodio il premier Mario Draghi, in visita nella capitale nordafricana per incontrare l’omologo Abdulhamid Dabaiba, aveva ringraziato i libici per i «salvataggi» dei migranti. Una parola impropria per definire le operazioni di cattura condotte dalla cosiddetta «guardia costiera» di Tripoli a bordo delle motovedette regalate dall’Italia.
Probabilmente anche il morto e i feriti erano finiti nel centro di prigionia a seguito di un’operazione di questo tipo. Al-Mabani, infatti, è stato aperto a gennaio scorso. Fino a inizio febbraio rinchiudeva 300 persone, aumentate vertiginosamente a seguito delle numerose intercettazioni condotte in mare nella prima metà di quel mese e poi a marzo. «In pochi giorni i detenuti sono diventati mille e al momento sono 1.500. Con i numeri sono cresciute anche le tensioni», scrive Msf. Due le dinamiche concorrenti: l’aumento dei migranti catturati nel Mediterraneo (6.071 nei primi tre mesi del 2021 contro gli 11.891 di tutto il 2020 – dati Oim); una diversa modalità di gestione dei successivi sbarchi in porto.
Per la legge libica l’ingresso e anche l’uscita «illegale» dal territorio nazionale sono considerati reato, per cui la maggior parte dei migranti sono arrestati una volta ricondotti a terra. Lo scorso anno, però, solo una parte veniva trasferita nei centri di detenzione ufficiali (alcune stime parlano di un 30%) mentre gli altri finivano verosimilmente nelle strutture in mano ai trafficanti, luoghi di cui si ha notizia solo attraverso i racconti dell’orrore di chi riesce ad arrivare in Europa. Da febbraio scorso, invece, le organizzazioni umanitarie presenti sul posto registrano un’inversione di tendenza: circa il 90% delle persone intercettate in mare sono portate nei centri di reclusione governativi. Così se al 31 gennaio l’Oim vi registrava 1.186 presenze, in due mesi il totale è schizzato a quasi 4mila.
Ieri l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti (Pd), ora presidente della neonata fondazione di Leonardo «Med-Or» (per il Mediterraneo allargato fino al Sahara e il Medio ed Estremo Oriente), ha definito sulle pagine del quotidiano La Repubblica queste strutture detentive come «centri di accoglienza». «Ad Al-Mabani non c’è acqua potabile – racconta Bianca Benvenuti, operatrice Msf appena rientrata in Italia da una missione in Libia – L’approvvigionamento è garantito solo da Unhcr, Oim ed Msf. Le celle non hanno finestre. Le persone sopravvivono al buio e senza ventilazione. In poche settimane i reclusi in ognuno di questi stanzoni sono passati da 70 a 100 e poi fino a 400. Si lamentano con i nostri operatori perché non hanno spazio per stendersi, devono trascorrere la maggior parte del tempo in ginocchio».
Ovviamente in simili condizioni è impossibile garantire misure di distanziamento per prevenire la diffusione del Covid-19 e di altre malattie come la scabbia o la tubercolosi. La gran parte della popolazione detenuta è composta da uomini, ma gli operatori Msf hanno incontrato anche donne con bambini piccoli, famiglie, minori non accompagnati e disabili. L’omicidio e i due ferimenti dell’altro giorno non sono avvenuti per caso. «L’utilizzo sistematico della violenza è la modalità di gestione del centro», continua Benvenuti.
* Fonte: Giansandro Merli, il manifesto[1]
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